Washington, 24 lug – Il 24 Luglio del 1974 si concludeva l’avventura umana e politica di Richard Nixon, allorquando la Corte Suprema degli Usa stabilì che era obbligato a consegnare alla Procura i famosi nastri che contenevano le sue velenose conversazioni telefoniche. Finiva così nell’infamia e nella vergogna quella che fu, dopo quella di Lincoln, una delle presidente più interessanti che gli Usa abbiano mai avuto. Si tende sempre, a livello di “cultura di massa”, a ricordare mafiosi guerrafondai come Kennedy, assassini di massa alcolizzati come Roosevelt o amichetti di Goldman Sachs come Clinton, ma Nixon rimane sempre e comunque una sorta di tabù proprio per quello stupidissimo scandalo privo di reale contenuto politico.
Eppure, i meriti politici di “Nixon boia” non sono affatto secondari: ha posto fine alla guerra del Vietnam; ha aperto alla Cina capendo per primo (e contro il parere di Kissinger) che essa avrebbe svolto un ruolo fondamentale in futuro; ha liberato l’economia mondiale dal cappio ipocrita del gold exchange standard che pretendeva di vincolare la moneta all’oro, come ai tempi dell’impero britannico; ha tentato la prima riforma sanitaria seria; ha cacciato a calci il paranoico ed isterico Hoover dall’Fbi, nonostante questo tentasse addirittura di ricattarlo senza rendersi conto che aveva di fronte un uomo vero e non un ragazzino. In effetti, il fatto che la “gola profonda” dei giornalisti che accusarono Nixon fosse William Mark Felt, allora vicedirettore dell’Fbi, potrebbe in qualche misura avallare l’ipotesi che si sia trattato niente di più che una vergognosa ritorsione. Noam Chomsky, il guru della sinistra, ha addirittura avallato l’ipotesi che in realtà lo scandalo sia servito alla copertura mediatica di un secondo scandalo, potenzialmente di portata anche maggiore: la rivelazione sull’operazione CoIntelPro dell’Fbi stessa.
Nello stesso periodo infatti fu reso noto che, in particolare sotto Kennedy, l’Fbi si era servita di una sorta di struttura parallela di infiltrazione per destabilizzare i partiti comunisti, il movimentismo afroamericano, ed altre organizzazioni “sovversive”, arrivando anche all’omicidio politico. Questo scandalo, contrariamente alla farsa del Watergate, era estremamente significativo perché metteva sotto accusa svariati presidenti “amatissimi” e la stessa struttura di potere governativa, ed infatti passò praticamente sotto silenzio. Nixon era sacrificabile, in quanto pericolosissimo cane sciolto capace di gesti anche eclatanti senza alcun rispetto per consolidate “pratiche” e “procedure” del deep state americano, l’importante è quello di salvare la struttura di riferimento.
Non è nostro compito né nostra intenzione quella di lasciarci andare alla speculazione storica, ma soffermiamoci sul funzionamento della psicologia di massa che, salvo quelle poche persone che hanno gli strumenti culturali per difendersi, recepisce esclusivamente il frame, ovvero la cornice “informativa” che viene imposta dall’alto. Esiste un pregevole saggio di Marcello Foa, “Gli stregoni della notizia. Da Kennedy alla guerra in Iraq: come si fabbrica informazione al servizio dei governi” a cui rimandiamo per la comprensione del meccanismo di formazione del frame stesso, in questo caso di demonizzazione di un personaggio pubblico. Interessante notare le analogie fra il “trattamento” riservato a Nixon e quello che subisce quotidianamente Trump. Nixon si fece, a causa delle registrazioni, fama di volgare maschilista bestemmiatore razzista antisemita reazionario…esattamente come Trump. La differenza fra i due è che il miliardario dalla folta chioma ha tutti i mezzi per difendersi da solo.
Ma il fatto che il frame mediatico ce lo presenti sostanzialmente come un Nixon redivivo fa ben sperare: che sia la volta buona? Che sia veramente il presidente che imprimerà una svolta radicale e distruggerà i neocon incistati nei gangli del potere come Nixon fece con il sempre mestruato Hoover? Non lo sappiamo, ma nel frattempo gli auguriamo di non finire in una trappola stile Watergate, ed alziamo un calice alla memoria di un grande presidente, che come tutti i grandi uomini ha dovuto sopportare l’umiliazione dell’oblio in quest’epoca di esaltazione della mediocrità.
Matteo Rovatti
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Articolo interessantissimo ma resto dell’idea che Trump farà una brutta fine e, nella migliore delle ipotesi per la sua incolumità, sarà quella di perdere le elezioni, in un modo o nell’altro…