Roma, 30 dic – Il Presidente della Turchia, Recep Tayyp Ergodan, è sicuramente il personaggio che ha caratterizzato questo 2016 che si concluderà tra poche ore. Putin, Obama e Trump sono personaggi che hanno monopolizzato l’attenzione mediatica ma se analizziamo la condotta politica di Ankara in questo 2016 non si può non rendersi conto di come Erdogan sia stato il personaggio più influente e importante a livello internazionale.
Può sembrare una provocazione, ma così non è, e per capirlo occorre fare un balzo indietro di un anno o poco più, quando, a dicembre dell’anno scorso, la Turchia veniva indicata dalla stessa Russia come la nazione che fiancheggiava l’Isis tramite il contrabbando di petrolio proveniente dai pozzi siriani e iracheni sotto controllo del Califfato. Mosca era addirittura arrivata a bombardare le colonne di autobotti al confine turco-iracheno esattamente alla fine dell’anno passato, con tanto di riprese aeree dei bombardamenti portate come prova a carico di Erdogan. Del resto la stessa Turchia è stata, e crediamo sia ancora, il porto franco dei foreign fighters da e per la Siria. Senza scomodare i vari “Salah Abdeslam” arrestati da quelle parti, ricordiamo che il filo rosso che collega i terroristi “europei” alla Siria passa per Ankara: la donna albanese residente in provincia di Lecco che ha abbandonato marito e figlie per combattere col Califfato è passata dalla Turchia via Kosovo, e come lei tantissimi altri in questi anni.
Erdogan infatti non ha mai nascosto la sua particolare antipatia verso Damasco schierandosi apertamente con i nemici di Assad e sostenendo, insieme alle monarchie del Golfo, il fronte ribelle sunnita finanche arrivando a “chiudere gli occhi” sui vari traffici di armi, petrolio, e valuta che passavano dal suo Paese a sostegno delle fazioni terroristiche di al-Nusra e dell’Isis, facendosi pertanto alfiere delle istanze americane, e di Israele, nell’area: per Tel Aviv e per Washington Assad andava eliminato, e ad Erdogan andava benissimo così. Tutto questo mentre i rapporti con la Russia, nonostante l’abbattimento del cacciabombardiere, erano sì congelati ma non defunti: più volte abbiamo citato che gli interessi economici che legano i due Paesi sono troppo importanti da poter essere sacrificati sull’altare di una politica fatta solo di principi. Turkish Stream, centrali nucleari, sono solo due delle voci che pesano sulla bilancia della “realpolitik” che lega Ankara a Mosca. Perché una cosa deve essere chiara: la politica internazionale non si basa su principi inderogabili. Non esiste un solco che divide il bianco dal nero bensì ci sono migliaia di sfumature di grigio: del resto i contatti tra due Paesi avvengono anche quando le diplomazie hanno fallito, figuriamoci quindi in casi come questo in cui non esiste uno stato di guerra tra due nazioni.
Erdogan quindi ha saputo portare il proprio Paese al centro della dialettica internazionale proprio grazie alla crisi siriana ma non solo: nel corso di quest’anno ha raccolto i primi frutti della sua politica atta a fare della Turchia una potenza regionale. L’inaugurazione dell’ambasciata turca in Somalia, la più grande legazione del continente africano, e la vexata quaestio Gulen con gli Stati Uniti, su cui torneremo a breve, sono lì a dimostrare come Ankara abbia raggiunto una maturità ed un peso politico internazionale sempre maggiore proprio grazie al nuovo corso voluto dal Presidente.
Il vero punto di svolta però è sicuramente il tentato golpe di luglio. Senza entrare troppo nel merito sembra ormai palese che quel venerdì abbia rappresentato la chiave di volta di quest’anno per Erdogan: in una notte è passato dal rischio di vedersi estromesso, anche fisicamente, dalla politica turca, ad esserne un nuovo e più forte protagonista. Sembra ormai palese, infatti, che il Golpe sia stato eterodiretto dagli Stati Uniti, la vera eminenza grigia che tirava le fila di Gulen, che, presi in contropiede dall’inaspettata resistenza popolare chiamata a raccolta dai muezzin e soprattutto grazie al salvataggio in extremis di Erdogan grazie ad un non meglio precisato intervento russo, hanno dovuto fare un repentino dietro-front abbandonando gli insorti al loro destino. L’essersi assicurato, nel corso degli anni, l’appoggio della polizia, la vera arma politica della nuova Turchia stante il fatto che l’esercito non rappresenta più da almeno un decennio il garante della laicità dello Stato a causa delle lenti ma costanti epurazioni erdoganiane, ha fatto il resto: il golpe è miseramente fallito nell’arco di poche ore permettendo ad Erdogan di terminare quel repulisti che ha iniziato in sordina anni or sono in modo rapido e violento.
Risultato collaterale, ma molto più importante a livello politico, del fallimento del Golpe, è stato quello di consegnare la Turchia in mano a Putin: già meno di un mese dopo, Mevlut Cavusoglu, il Ministro degli Esteri turco, dichiarò che “Turchia e Russia stabiliranno un meccanismo congiunto in ambito militare, di intelligence e diplomatico”. Sicuramente una vittoria diplomatica per Mosca, che si assicura un alleato importante ed un interlocutore forte nell’area mediorientale, ma anche una mossa strategica rivoluzionaria per Ankara, che così facendo può avere delle carte di notevole valore da giocarsi in seno alla Nato o all’Europa. Perché non bisogna dimenticare che la Turchia è ancora un Paese membro a tutti gli effetti dell’Alleanza Atlantica, con numerose basi, tra cui la più importante quella di Incirlik, che sono il punto di partenza per quasi tutte le operazioni della Nato e dei suoi alleati nell’area unitamente a quelle irachene; presenza nella Nato che non è mai stata messa in discussione nemmeno nei giorni successivi al Golpe in cui sembrava che le relazioni tra Ankara e Bruxelles dovessero rompersi, ad un primo e superficiale sguardo: riprova è il fatto che le batterie di missili SAM, tra cui anche una italiana, richieste da Erdogan a difesa del proprio spazio aereo in seguito allo “sconfinamento” dei cacciabombardieri russi, sono ancora al proprio posto e attive. Presenza nella Nato che però non ha impedito alla Turchia di guardare ad est anche in ambito militare, come aveva preannunciato Cavusoglu ad agosto, con l’intenzione, per ora solo sulla carta, di acquistare il sistema missilistico S-400 dalla Russia. Se davvero Ankara porterà avanti sino in fondo la trattativa per l’acquisto di questi missili SAM sarà il primo Paese della Nato a dotarsi di un sistema di tale tipo non di fabbricazione occidentale.
Questa politica, se vogliamo spregiudicata, di Erdogan gli ha permesso quindi di ottenere un risultato non indifferente: sedersi al tavolo con Mosca e Teheran per trattare sul cessate il fuoco e sul futuro della Siria. Il tutto all’indomani del sanguinoso attentato che ha visto l’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara, cosa che, in altre circostanze, avrebbe potuto seriamente minare l’esito del vertice trinazionale, ma che, evidentemente, non è bastata stante i rapporti sempre più stretti tra Russia e Turchia. Erdogan, ancora una volta, ne è uscito rafforzato, e questo rende realmente le dimensioni dell’importanza e del peso politico che ha raggiunto in quest’anno; un anno, questo 2016 che possiamo quindi definire, giustamente, come l’anno di Erdogan: il più grande leader turco secondo solo ad Ataturk.
Paolo Mauri