Roma, 9 feb – Piazza Affari a picco, l’indice bancario che dall’inizio dell’anno ha perso oltre il 30%, spread in rialzo e sommovimenti attorno a Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale. Ce ne sarebbe abbastanza per far rizzare le antenne sul quadro che va delineandosi attorno all’Italia, stretta da una nuova crisi di natura finanziaria simile – per il momento, in attesa di eventuali mosse future – a quella che nel 2011 portò alla caduta di Berlusconi e all’arrivo di Monti.
Partiamo dalla borsa. Le difficoltà non sono solo italiane ma generalizzate in tutta Europa. Milano e Atene, però, fanno peggio di tutte. Lasciando da parte la Grecia (-8%), l’indice milanese è il peggiore in Europa, dopo che ieri ha chiuso a quasi -5% e oggi apre già in forte ribasso. Una sequela di scivoloni da inizio anno, in un mese hanno fatto evaporare tutti i guadagni del 2015 che aveva visto Borsa Italiana primeggiare sulle piazze del vecchio continente. A pesare sono soprattutto i titoli bancari, stretti dalla vicenda dei crediti in sofferenza rispetto ai quali le misure scelte dal governo/imposte dalla Ue non sembrano poter offrire una soluzione efficace. E qui scatta il primo campanello d’allarme: perché questa solerzia nei confronti dell’Italia – ritorna sempre la leva arbitraria degli “aiuti di Stato” – quando, a più riprese, agli altri membri dell’Unione è stata spesso data la possibilità di attingere a fondi pubblici per puntellare i bilanci dei loro istituti di credito?
Secondo tema all’ordine del giorno è, di nuovo, quello dello spread. Il tormentone sembra poter tornare, stando almeno agli ultimi ribaltoni. Negli ultimi mesi il suo valore è cresciuto di quasi il 50%, con un picco nell’ultima settimana, quando è passato da 115 ai quasi 150 di ieri. Ancora poco rispetto ai massimi del novembre 2011, quando i nostri titoli del debito toccarono sul mercato i 574 punti di differenza rispetto agli omologhi tedeschi. La storia può ripetersi? Non è dato saperlo, ma Fondo Monetario Internazionale e governo tedesco hanno già lanciato due avvisi sibillini. Il primo è arrivato per bocca di Carlo Cottarelli, l’ex commissario alla revisione della spesa, ritornato a Washington dopo essere stato promosso (o rimosso?) proprio da Renzi. “I tassi non rimarranno bassi per sempre: finchè noi abbiamo un debito pubblico pari al 133% del Pil, uno dei livelli più alti al mondo, e uno dei livelli più alti raggiunti nella storia d’Italia dal rapporto tra debito pubblico e Pil, noi rimaniamo esposti al rischio che i mercati cambino opinione sul debito pubblico italiano“, aveva spiegato non più tardi di due settimane fa il direttore esecutivo del Fondo. Il secondo dal ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, che sta lavorando per porre fine al “privilegio concesso ai titoli pubblici nella regolazione bancaria”, vale a dire costringere le banche ad effettuare accantonamenti sulla base dei titoli di Stato in portafoglio per tutelarsi dal rischio-paese. E gli istituti italiano ne detengono qualcosa come 400 miliardi.
I titoli italiani godo, al momento, di un rating pari a Bbb-, appena al di sopra della soglia “junk”, “spazzatura”. Qualora il “cambio di opinione” ventilato da Cottarelli dovesse avvenire, il downgrade sarebbe quasi immediato. La Bce a questo punto non potrebbe più, nell’ambito del programma di Quantitative Easing, acquistare i nostri titoli di Stato in quanto al di sotto dei requisiti minimi. Stesso discorso, se passasse la linea Schaeuble, con riferimento ai privati: le banche smetterebbero di finanziare il debito pubblico come fanno adesso. Il risultato? Lo spread si impennerebbe di nuovo, con conseguenze facilmente immaginabili. Forse non sarà Tito Boeri il prescelto, ma visti anche gli attriti con la Commissione degli ultimi tempi, l’ipotesi governo tecnico eterodiretto non sembra più così peregrina.
Filippo Burla
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