Roma, 27 feb – Per la prima volta da metà maggio del 2010, quindi negli ultimi cinque anni, quello spread reso famoso per essere stato pretestuosamente additato quale causa della caduta dell’ultimo governo Berlusconi scende sotto la soglia psicologica dei 100 punti base. Si rammenti che lo spread indica la misura del differenziale di rendimento a dieci anni dei titoli di stato italiani, i Btp, rispetto agli analoghi Bund tedeschi.
Una tendenza, questa, condivisa da tutti i paesi di eurolandia, specialmente proprio quelli considerati periferici, o già denominati “Piigs” – Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Questi ultimi, infatti, fatta eccezione per la Grecia che fa storia a se’, mostrano tutti tassi d’interesse molto bassi, dal 1,34% dei Btp italiani al 1,26% di quelli spagnoli, al 1,6% del Portogallo e al minuscolo 0,86% dell’Irlanda.
Una dinamica, questa, riprodotta a fianco per lo spread italiano nell’ultimo anno, che come al solito assai frettolosamente il presidente del consiglio Matteo Renzi ha commentato con un tweet “Spread sotto quota 100, mille ex precari assunti a Melfi col JobsAct, via segreto bancario non solo in Svizzera, dai che è #lavoltabuona”.
La volta buona si, ma per affondare definitivamente.
Si tratta infatti, come segnalato dal Sole 24 Ore, puramente ed esclusivamente dell’effetto dell’alleggerimento quantitativo (Qe) promosso dalla Banca centrale europea, che prevede proprio un piano di acquisto di bond governativi da parte della Bce, con l’effetto di schiacciare sempre di più i rendimenti degli stessi e, in particolare, di quelli dei Paesi periferici di eurolandia.
I quali, rendimenti, ovviamente, non hanno alcun riferimento con il rischio-Paese e la solidità socio-economica degli Stati emittenti. La riprova proposta dal Sole 24 ore è molto solida e arriva dal T-Bond statunitense: il titolo decennale di Washington, infatti, ha un rendimento superiore al 2%. Non si può nascondere che avere il tasso sul Btp molto inferiore a quello del T-Bond è una forte contraddizione, spiegabile soltanto con l’effetto dell’alleggerimento quantitativo che parte a marzo.
Un rapporto causale confermato anche da Maria Cannata, capo della direzione del debito pubblico del Ministero dell’economia: “Adesso che sono stati annunciati i dettagli del Qe – ha detto ieri in un’audizione alla Camera – assistiamo ogni giorno a un ribasso dei tassi” oltre che ad un “grande appetito per i titoli della periferia”.
Eppure è palesemente assurdo acquistare titoli di Stato con rendimenti inferiori al 2% in dieci anni, se non altro perché il loro rendimento in termini reali è negativo, come evidente nella tabella a fianco. Delle due l’una, quindi: o non può durare, e superata la prima fase di Qe i tassi di rendimento torneranno a salire, oppure si tratta di una gigantesca operazione di “riciclaggio” – legittimo, s’intende, nel quadro impazzito della finanza internazionale – di denaro ottenuto gratuitamente dalle grandi istituzioni finanziarie attraverso il presente e soprattutto i passati Qe, in pratica una conversione del denaro accumulato in attesa di occasioni d’investimento che non sono mai arrivate in titoli di debito pubblico, risultando in una titanica cessione delle ricchezze nazionali alle grandi banche.
In ambo i casi, nemmeno mutuamente esclusivi (il secondo nel breve termine e il primo nel lungo termine), il destino degli Stati nazionali appare segnato nella direzione della ulteriore massiccia perdita di ricchezza e sovranità. Cosa Renzi abbia da festeggiare, allora, non è dato sapere, o forse è meglio non saperlo.
Del resto, tutto era chiaro fin da quando titolammo, quasi tre mesi fa, che il quantitative easing di Draghi sarebbe stato un danno per l’Italia e l’Europa, poiché in un sistema basato sulla creazione di moneta dal nulla, anziché su una tassazione equa e la connessione del denaro alla reale capacità produttiva e di consumo, l’unico obiettivo dei “creatori” del denaro è quello di preservare il valore nominale delle enormi quantità di denaro generate dal nulla, massimizzando il valore della divisa attraverso la creazione di una domanda elevata e sempre in espansione della moneta stessa, per esempio attraverso una tassazione selvaggia e – questo il caso in specie – la creazione di elevatissimi livelli di debito pubblico.
Anche in questo senso, niente può essere peggio per uno Stato di disfarsi della capacità di generazione di ricchezza reale, come la decisiva vendita di quote di Enel discussa ieri, e allo stesso tempo di puntare al piazzamento di quote sempre crescenti di titoli di stato nei mercati finanziari internazionali.
Probabilmente Renzi e i suoi burattinai hanno precisamente l’obiettivo di gettare l’Italia nelle fameliche fauci dei padroni della grande finanza globale, un disegno che può essere ostacolato soltanto dall’auspicabile risveglio del popolo italiano.
Francesco Meneguzzo