Roma, 13 feb – “In relazione alla prima fase di privatizzazione, ritengo possa essere considerata attendibile una stima complessiva di benefici finanziari per lo Stato dell’ordine di 8-9 miliardi di euro”. Parola di Fabrizio Saccomanni, ministro dell’economia del governo di svendita nazionale.
Durante un’audizione in commissione Lavori pubblici del Senato, Saccomanni ha nuovamente parlato del piano di privatizzazioni. Puntualizzando che il 2014 vedrà la dismissione di partecipazioni rilevanti, ma non maggioritarie, di Poste, Enav ed StMicrolectronics, il ministro mette nuovamente nel pacco regalo per la finanza internazionale anche Eni. Proprio due giorni fa Scaroni, ad del colosso pubblico italiano, si sfogava riguardo l’incapacità irrazionale della gestione energetica europea e nazionale, mostrando la via per l’indipendenza negli approvvigionamenti e l’alleanza strategica con la Russia. Sarà una combinazione o solo una minaccia il paventarsi della svendita per un gigante industriale col pallino della sovranità nazionale fin dai tempi di Enrico Mattei?
Tornando all’audizione, Saccomanni conferma che le prime due società che verranno quotate in borsa saranno Poste ed Enav, nella misura rispettivamente del 40% e 49%, tranquillizzandoci affermando che “mantenendo il controllo pubblico per Poste ed Enav non si compromettono gli obiettivi strategici. Non credo che la vendita di parte del capitale possa comportare effetti negativi”. Difficile pensare che i fondi strategici arabi, cinesi o i fondi d’investimento americani abbiano gli stessi obbiettivi italiani a lungo termine. Pur considerando il dominio della maggioranza, quello che sempre sfugge da queste dichiarazioni è il semplice problema che vendendo il 40% di Poste, stiamo “vendendo” anche il 40% del dividendo annuale (pari a 400 milioni di euro all’anno su un totale di un miliardo, nel solo caso di Poste), che non finirà più nelle casse dello Stato italiano, ma in larga parte in quelle di nazioni o privati stranieri. Detto terra terra, ma è così.
Già firmato da Letta il decreto per la vendita di Poste ed Enav “anche in più fasi”, in tempi brevi sarà inoltre attivata dal Ministero anche la gara per scegliere il consulente legale e quello finanziario che avvieranno poi le iniziative per quotare le due aziende in borsa. In più fasi appunto: come nel caso dell’inglese Royal Mail, il cui valore salì del 40% all’atto della quotazione in borsa, potrebbe per l’appunto essere più remunerativo mettere sul mercato le azioni di Poste suddivise in più pacchetti, in modo da massimizzare il guadagno. Nessuna possibilità al momento nel riconoscere condizioni privilegiate d’acquisto ai correntisti di Poste, ma solo – non è poco comunque, già ne parlammo su Primato Nazionale – per i dipendenti, ma ancora non c’è una decisione ufficiale a riguardo.
Per quanto riguarda le altre dismissioni, Saccomanni spiega che “occorre innanzitutto distinguere tra cessioni di partecipazioni dirette e dismissioni di partecipazioni indirettamente detenute (cosiddette privatizzazioni di secondo livello)”. I ricavi delle prime “saranno esclusivamente destinati al Fondo ammortamento dei titoli di Stato e utilizzati – attraverso il riacquisto o il rimborso a scadenza di detti titoli – per la riduzione del debito pubblico”. Per quanto riguarda invece le altre “gli introiti andranno a beneficio delle società azioniste dirette, che li utilizzeranno per la riduzione del proprio indebitamento e per il supporto di iniziative di investimento del gruppo; nell’eventualità in cui dovessero generarsi plusvalenze (o situazioni di patrimonio ‘eccedente’), le maggiori risorse a disposizione potranno essere retrocesse al ministero dell’Economia in quanto azionista, con conseguenti benefici per i conti pubblici”.
Il ministro comunque evita di prendere tutti per stupidi fino in fondo e, pur proseguendo con la solfa che il motivo “più importante” che ha spinto il governo a queste nuove privatizzazioni è “l’esigenza di ridurre in modo consistente il debito pubblico”, si contraddice ammettendo per la prima volta che “è vero che ci saranno importi modesti rispetto al debito”. Indovinate come spiega il controsenso? Certo, avete indovinato. Sempre di ‘quelli’ si parla: “credo – dichiara Saccomanni – che vada dato un segnale all’Europa e a noi stessi che stiamo cercando di trovare modi per ridurre il debito diversi dal taglio della spesa pubblica o dell’aumento dell’imposizione”. A voi scegliere l’opzione che più vi aggrada, assegnando l’ordine di dismissione ad Ue, Merkel, Sua Maestà britannica o al grande padre atlantico. Poco cambia. Tant’è che richiama alla memoria anche gli eccitanti risultati del colpo di stato di vent’anni fa “un processo di dimensioni uniche nel panorama europeo che ha interessato circa 30 aziende pubbliche, determinando introiti complessivi per lo Stato di circa 100 miliardi di euro”. Dichiarazione un pò di cattivo gusto proprio nei giorni in cui anche l’ultimo degli ignoranti ha compreso come andarono veramente le cose negli ultimi golpe tecnocratici del 1992 e del 2011.
Nel 1992, anno chiave del golpe con la trattativa Stato-Mafia, l’uccisione di Falcone e Borsellino e la destituzione della classe politica che aveva portato l’Italia a diventare quinta potenza economica mondiale, si svendette il 48% dell’industria strategica pubblica italiana alle elite angloamericane riunite il 2 giugno sul panfilo Britannia. Nel 2014, a seguito del colpo di stato orchestrato tre anni fa, comincia la spartizione di ciò che è rimasto.
Allora furono cento miliardi, oggi dieci.
Con quali benefici?
Sia individualmente che come nazione siamo eccezionalmente più poveri, disoccupati e soprattutto senza prospettive rispetto alla cavalcata dell’epoca Craxi.
Tra altri vent’anni sarà il deserto.
Gabriele Taddei