Roma, 16 dic – Se l’ultimo ventennio è stato caratterizzato da una delocalizzazione selvaggia – fenomeno in cui un numero sconfinato di aziende italiane ha scelto di spostare le proprie produzioni oltre confine, soprattutto nell’est europeo e nel sudest asiatico – le storie di sfruttamento minorile e femminile, le condizioni inumane delle catene di montaggio malesi o cinesi hanno scandito la cronaca degli ultimi vent’anni – il periodo più recente fa registrare un’interessante inversione di tendenza per cui alcune aziende italiane scelgono di fare la strada al contrario e reinsediare tutta la produzione, o solo alcune parti, in patria.
Sono ancora poche ma potrebbero crescere, anche perché non è un fenomeno solo italiano quello delle imprese che ripensano i modelli produttivi. Negli Stati Uniti lo chiamano backshoring, un fenomeno che dal 2010 ha visto centinaia di aziende riportare le fabbriche nel luogo di origine. In Italia c’è un gruppo di ricerca, l’Uniclub Backshoring, che coinvolge le università dell’Aquila, Catania, Udine, Bologna, Modena e Reggio Emilia, che si è preso la briga di studiare i movimenti di tutte quelle imprese che camminano a ritroso. E che ha dimostrato che l’Italia, a dispetto di molte imprese che continuano a delocalizzare, è il primo territorio in Europa per ritorni industriali.
Diversi i motivi che hanno determinato questa pur minima inversione di tendenza. I principali sono riassumibili in:
- In molti luoghi lontani dall’Italia i costi della logistica tendono ad aumentare;
- La differenza nel costo del lavoro non è più abissale come prima, e la qualità della manifattura è inferiore rispetto a certe eccellenze del nostro Paese. – Il made in Italy, inteso come produzione italiana al 100%, è sempre più richiesto dal mercato.
- Spesso la distanza tra sedi produttive all’estero e centri di ricerca e sviluppo in Italia non permette di rispondere immediatamente alle variazioni del mercato.
Per le imprese dell’abbigliamento il valore del Made In Italy è tale che vale la pena affrontare costi maggiori di produzione. Ma non è l’unico aspetto. Infatti ci sono aziende della meccanica, dell’occhialeria, dell’automazione che sono rientrare in Italia. Qualità è la parola d’ordine, tanto che i settori più interessati dal fenomeno sono moda (43,5% delle decisioni totali) ed elettronica-elettrotecnica (18,8%). Insomma. un’asola fatta da una sarta italiana è una cosa che in Cina non si trova. Ma oltre alla qualità e al risparmio sul dazio doganale sul piatto ci sono una maggiore prossimità al cliente e il fatto di tagliare i tempi e i costi della logistica con una maggiore flessibilità negli ordini.
Negli Usa il governo Obama e alcuni Stati particolarmente colpiti dalle delocalizzazioni, come la California, hanno cominciato sia ad aumentare la pressione fiscale sui prodotti manufatti all’estero sia a offrire incentivi e facilitazioni alle imprese che reinvestono sul suolo americano. La California ha incentivato l’industria creando 350.000 nuovi posti di lavoro. Una scelta di questo tipo rappresenta sicuramente un volano per le aziende che vogliono far ritorno a casa e dovrebbe essere un esempio per il nostro governo per far sì che si ricreino le condizioni che ci permettano di affrontare l’emergenza disoccupazione. Puntare sugli incentivi alle rilocalizzazioni e non sullo strombazzato Job’s Act porta risultati e contributi al mondo del lavoro.
Giuseppe Maneggio