Londra, 5 apr – Port Talbot, il principale impianto di produzione dell’acciaio nel Regno Unito è ad un passo dalla chiusura, mettendo a rischio circa 4mila posti di lavoro, 9mila considerato anche l’indotto. L’annuncio del gruppo indiano Tata Steel di voler abbandonare ogni investimento in Gran Bretagna rivela una posto in gioco purtroppo molto più alta, che coinvolgerebbe addirittura 40mila operai del settore e potrebbe mettere in ginocchio un’intera regione, il Galles, fulcro della produzione dell’acciaio nel regno di Elisabetta II. Colosso che ha ultimamente mostrato interesse per il gruppo tedesco Thyssen, dal 2007 Tata Steel, dopo aver acquistato la Corus, possiede infatti i più grandi impianti del paese ma, ormai da tempo, la crisi era alle porte: la società cercava compratori da oltre un anno e, appena tre mesi fa, annunciava licenziamenti e chiusure. Soltanto l’impianto in questione, che ha richiesto al gruppo investimenti per circa un miliardo di sterline, ad oggi, è in perdita di 300 milioni di sterline l’anno. E così la decisione finale: se non si trova un compratore, si chiude.
Nel mirino due fattori, spesso concomitanti: il dumping cinese e gli altissimi costi dell’energia. Sul secondo fattore, in particolare, insisteva Matt Ridley ieri sul “Times”, ricordando la chiusura nel 2012 degli impianti di produzione dell’alluminio (settore ora dominato ancora una volta dalla Cina) di Lynemouth soprattutto a causa di costi energetici doppi rispetto alla media europea e non solo. “E’ vero che, nell’immediato, la crisi gallese è causata più dal dumping cinese dell’acciaio a basso costo sul mercato mondiale piuttosto che dal costo dell’energia in sé. Ma la questione è connessa comunque alle politiche climatiche. “La Cina – incalza – ha aumentato massicciamente le sue emissioni negli ultimi anni per far crescere la sua industria pesante”. Secondo Ridley, che d’altra parte riprende le accuse della compagnia stessa che nei mesi scorsi aveva segnalato con forza la questione, le acciaierie subiscono meno l’influenza dei costi dell’energia rispetto alle industrie dell’alluminio ma, anche in questo caso, la presenza di un competitor che non rispetta le regole senza che nessuno faccia nulla per proteggersi rappresenta comunque un fattore di squilibrio se non altro concomitante. E le politiche di riduzione delle emissioni, fin troppo rispettate dal Regno Unito secondo il giornalista, penalizzerebbero ancor di più il paese rispetto ad una Cina che, invece, non sta ai patti.
Motivazioni a parte, come accennato, sul tavolo c’è soprattutto una “vecchia” questione: prezzi troppo bassi che invadono e conquistano i mercati e, sul fronte opposto, un’Europa inerme, che in nome del liberismo si rifiuta di reagire, bocciando a priori ogni tentativo protezionistico. Così come, peraltro, sta facendo esplicitamente anche il governo inglese, nonostante la Cina abbia addirittura incluso proprio l’acciaio prodotto in Galles in una lista di prodotti importabili soltanto pagando un dazio fissato ora addirittura al 46%, mentre l’Europa permette l’importazione di prodotti dalle acciaierie cinesi con un’imposta di appena il 9% sul prodotto. A denunciarlo è sempre il Times che, due giorni fa, in prima pagina, accusava la Cina di aver alzato il prezzo dell’acciaio britannico. Lo stesso premier David Cameron, in effetti, nonostante abbia nel recente passato accolto la Cina nel paese a braccia aperte, è stato praticamente costretto ad esprimere ‘preoccupazione’ al leader cinese Xi Jinping, in occasione del vertice sulla sicurezza nucleare di Washington. “Un’umiliazione per il governo”, commentava Michael Savage a proposito della faccenda. Secondo Stephen Kinnock, deputato laburista, il dumping cinese “ha paralizzato l’industria dell’acciaio inglese negli ultimi cinque anni”. Cameron, da parte sua, si è difeso criticando le soluzioni semplicistiche e puntando il dito contro l’eccesso di offerta del settore, ma non ha comunque spiegato come è possibile che, a fronte di una sovrapproduzione, si aprano i mercati a concorrenti spietati e senza regole come le industrie cinesi. D’altra parte, il governo ha anche escluso l’eventualità di nazionalizzare le acciaierie per evitarne la chiusura ed ha messo in allerta coloro che hanno richiesto aiuti di stato, spiegando che l’Europa, certamente, boccerebbe l’iniziativa in nome della libera concorrenza. Risposta quanto meno tragicomica a fronte di una concorrenza già falsata dalla Cina che, ai bassi costi di vendita, aggiunge anche le alte tasse sulle importazioni. Per non parlare del tabù nazionalizzazioni. Ennesimo esempio di come l’Europa, in economia come nella politica estera, nella sicurezza e nella cultura, per mano di pochi burocrati, si stia di fatto suicidando, subendo senza reagire ogni tipo di attacco esterno.
Emmanuel Raffaele
1 commento
mi sembra il giusto contrappasso.
nella patria del libero mercato costi quel che costi ce la si prende nel culo a causa del libero mercato.