Roma, 23 ott – 237 mila: il numero degli italiani che nel 1990 lavoravano nella Fiat. 84 mila: il numero degli italiani che lavoravano nella Fiat 25 anni dopo. Eni 26 anni fa contava 127.197 occupati in Italia, lo scorso anno meno di 17.000. Praticamente nel ’90 Fiat ed Eni insieme contribuivano a creare 364.197 posti di lavoro, Telecom altri 126mila. In Italia, oggi, sono decisamente più i commessi che gli operai, l’azienda con il maggior numero di dipendenti è non a caso Poste Italiane.
Tirando le somme, nel ’90 l’industria dava lavoro a 5,8 milioni di italiani, nel 2000 era già scesa a 5,1, nel 2014 a 4,5 milioni. Il ridursi di questi numeri è sicuramente dovuto anche a fattori di tipo tecnologico, come il rinnovo dei processi produttivi, ma tanto è dovuto anche alla delocalizzazione di molte imprese private, le quali hanno preferito utilizzare manodopera straniera,a costi inferiori. Esempio calzante in questo caso è la Fiat. L’industria di casa Agnelli nel ’90 dava lavoro a 303 mila persone nel mondo, di cui come abbiamo visto 237.000 mila in Italia. Oggi il numero dei dipendenti di Fiat nel mondo non è affatto cambiato, a ridursi è stato invece il numero di occupati in Italia, che si è ridotto di oltre 152mila posti di lavoro.
Guardando il panorama industriale italiano da questo punto di vista, forse si andrebbe d’accordo con Giuseppe Berta, storico dell’industria, che nel suo ultimo saggio arriva ad asserire che il “capitalismo italiano non esiste più”, cosa che potrebbe quasi far gioir qualcuno, se solo al posto di questo non fossimo costretti a sorbirci i danni collaterali del capitalismo globale. Se partiamo dal 1990 è forse perché è proprio dall’ultimo quarto di secolo che ha inizio il declino industriale italiano. Andando analizzare i fattori che hanno portato a questo processo di deindustrializzazione, il professore Riccardo Gallo – autore del libro ‘Torniamo a industriarci’- scrive : ”Le imprese hanno munto mucche vecchie e, fino alla loro morte, hanno tratto latte proficuo. Gli azionisti delle società industriali italiane si sono distribuiti nell’ultimo quarto di secolo complessivamente il 110% degli utili netti di esercizio, intaccando così le riserve. In altri termini, hanno saccheggiato le loro stesse imprese”. Di conseguenza “Di fronte all’impoverimento del loro contenuto industriale, per cercare di mantenere una certa produttività del lavoro, le imprese hanno ridotto l’organico e lo hanno fatto in tutti i modi possibili”.
Nonostante ciò in questo contesto la situazione finanziaria delle industrie italiane è stabile. Allora ciò che bisogna realmente chiedersi è che natura abbia ciò che frena gli investimenti in Italia. A tal proposito Gallo individua nel biennio 98-99 “l’anno, al tempo stesso, di inizio della caduta degli investimenti delle imprese industriali, di inizio del deterioramento della competitività del Paese, di raggiungimento della massima incertezza nella politica economica e istituzionale”. Le cause? Durante gli anni ’90 il governo mise fine alle partecipazioni statali, abolì il Cipi (Comitato interministeriale per coordinamento della politica industriale), sotto pressione della commissione europea iniziò lo smantellamento di praticamente tutti gli strumenti di intervento pubblico nell’economia istituiti durante il fascismo e in ultimo la perdita della leva di cambio. In pratica, appena conclusa la stagione interventista dello Stato, la crisi degli investimenti ha avuto inizio. Dinanzi a questo “cambio di rotta” decisivo, lo Stato sembrò non essersi affatto preparato nella messa a punto di strategie alternative. Adeguandosi semplicemente a tutto ciò che è seguito.
Del resto con l’uscita di scena dello Stato, in molti capitalisti non sono riusciti nell’ assumere la gestione delle imprese, con la conseguente perdita di ciò che un tempo erano le pietre miliari dell’Iri. Anche Berta infatti, come Gallo, vede nella scomparsa dello Stato-investitore l’inizio della fine per molti colossi un tempo protagonisti sul piano industriale nazionale e anche lui sottolinea l’assenza di un modello alternativo pronto a sostituire o quanto meno compensare parzialmente quello precedente: “I dati dimostrano che, in Italia, gli investimenti più massicci sono sempre stati fatti dalla mano pubblica. Quando il duopolio fra l’industria di Stato e le grandi famiglie è venuto meno, perché la prima è andata dissolvendosi e le seconde hanno venduto le loro attività, il nostro modello produttivo – che rappresentava un vero e proprio sistema di economia mista – è stato definitivamente disarticolato, senza che fosse pronto un modello alternativo”.
A dare speranza a molti è ora la preannunciata “quarta rivoluzione industriale”, ovvero l’industria 4.0, di cui tanto si sta sentendo parlare. Alcuni analisti la descrivono come un processo che porterà alla produzione del tutto automatizzata e interconnessa. Ruolo fondamentale svolgeranno infatti le nuove tecnologie digitali e le sempre più ricercate capacità di machine learning, per l’utilizzo e l’analisi dei dati. Importante obiettivo di sviluppo sarà anche l’interazione uomo-macchina e tutto quel settore che si occupa della trasformazione di ciò che è “virtuale”, digitale in reale. Resta da vedere se il nostro paese sarà in grado di avviare questo nuovo tipo di processo e quale sarà l’impatto di questo sul mercato del lavoro.
Edoardo Martino