Tokyo, 12 mag – Mentre un’Europa sempre meno convinta si sfinisce nella trattativa sul Ttip, la partnership transatlantica per il commercio e gli investimenti, intorno all’altro grande oceano pare in dirittura d’arrivo il “cugino” Tpp, trattato di partnership trans-pacifico, imperniato su Stati Uniti e Giappone, nella cui negoziazione sono stati impegnati dodici paesi per parecchi anni e che esclude la Cina (e la Russia).
Obiettivi sottesi da ambo i trattati sono, tra gli altri, la rimozione delle tariffe doganali, la liberalizzazione dei servizi pubblici e del mercato del lavoro, l’armonizzazione delle legislazioni in materia ambientale e di sicurezza.
Nonostante una grande quantità di questioni irrisolte, dalla proprietà intellettuale all’agricoltura ai servizi, l’opportunità di una svolta pare essere stata offerta dalle insistenze della Cina per la partecipazione del Giappone alla banca asiatica per le infrastrutture e gli investimenti (Aiib), come riportato dal Sole 24 Ore.
Nonostante, infatti, le divisioni all’interno del governo nipponico e del partito liberaldemocratico del premier Shinzo Abe, che a suo tempo rifiutò la vicepresidenza della Aiib offerta dalla stessa Cina, le opinioni nel paese del sol levante stanno rapidamente cambiando, sia in seguito allo sfilacciamento del fronte filo-Usa, che ha visto la defezione prima della Gran Bretagna, quindi di altri importanti paesi europei, Italia inclusa, tutti soci fondatori della banca creata da Pechino, e infine di Australia e Corea del Sud, sia per la consapevolezza che è meglio stare dentro per partecipare a investimenti di sicura redditività e sopire per via economica i pericolosissimi contenziosi territoriali e di sicurezza regionale.
Persa l’opportunità di essere socio fondatore, Tokyo vede la scadenza di fine giugno per contribuire al capitale dell’Aiib come “ultima spiaggia, e la simultanea conclusione del trattato Tpp come occasione irripetibile per trascinare nella Aiib anche gli stessi Stati Uniti e la barcollante banca per lo sviluppo asiatico (Adb) a guida nippo-americana. Tanto più che l’affare si ingrossa a vista d’occhio e si allontana dal dominio del dollaro a un paniere sempre più esteso e gonfio di valute locali, con lo Yuan cinese e il Rublo russo in pole position.
Lasciando però l’argomento delle mega-banche internazionali, è interessante comprendere meglio cosa potranno significare i grandi trattati trans-atlantico e trans-pacifico per i lavoratori e le classi medie dei più sviluppati tra i lavoratori coinvolti.
Soccorre a questo scopo l’analisi effettuata dal portale specializzato Dark Bid, ripreso anche dal notissimo Zero Hedge. Il titolo, già esemplificativo, secondo cui il libero scambio è propaganda “plutocratica”, è sostanziato dalle evidenze seguite al Nafta, che dal 1994 regola il libero scambio in nord America e vede coinvolti Stati Uniti, Canada e Messico.
Secondo Dark Bid, il linguaggio prima di tutto è importante: attaccando la parola “libertà” in tutte le sue declinazioni a qualsiasi concetto, questo acquisisce magicamente un significato positivo. Questo avviene anche con “libero scambio”.
Gli alfieri del libero scambio sembrano rivolgersi, nella loro incessante propaganda, all’uomo delle caverne, perché in realtà questo concetto non trova riscontri nel mondo reale, così come non esiste la propagandata “parità di potere contrattuale”. Come semplice esempio, per un nullatenente a reddito zero, qualsiasi retribuzione sopra zero rappresenta un miglioramento della propria condizione, e questo è ciò che gli economisti del libero scambio intendono per “libertà”: lavorare a un dollaro l’ora.
Del resto, l’opposto del libero scambio è il “protezionismo”, anche condito con un’adeguata dose di autarchia, che, invece di essere inteso per quello che è – protezione dell’economia del proprio paese – è oggi bollata come un peccato mortale.
Eppure sia la rivoluzione americana che i decenni successivi furono caratterizzati da un fortissimo protezionismo, tanto che nel 1820 le tariffe doganali erano al livello del 40%, la manifattura americana si era fatta grande grazie a quelle e lo stesso Abraham Lincoln dichiara “Dateci una tariffa protettiva, e avremo la più grande nazione sulla Terra”. Cosa che puntualmente è avvenuta.
Perché allora gli Usa hanno deciso di distruggere la propria industria manifatturiera per seguire le fallaci sirene del libero scambio? Questo è infatti avvenuto a ritmi accelerati dall’entrata in vigore del Nafta nel 1994, tanti che negli anni ’90 del secolo scorso il 98% dei nuovi posti di lavoro creati negli Stati Uniti furono relativi al settore dei servizi, che offriva salari inferiori rispetto alla manifattura.
Secondo Alan Blinder, professore di economia e gestione pubblica all’università di Princeton ed ex vice-presidente del consiglio di amministrazione della Federal Reserve, “Contrariamente al senso comune, i posti di lavoro più delocalizzabili non sono quelli a minore specializzazione, misurata sia in termini di salari che di formazione. La correlazione tra competenze e delocalizzabilità è quasi zero”.
In altre parole, la pressione per la massimizzazione dell’utile delle grandi corporation ha nettamente prevalso sull’opportunità di mantenere i migliori posti di lavoro all’interno delle nazioni che hanno generato le relative specializzazioni industriali. È così che la Apple mantiene soltanto il 5,6% dei suoi occupati negli States, mentre 700 mila sono i lavoratori che producono all’estero i componenti essenziali per i suoi gadget di dubbia utilità, in particolare i lavoratori-schiavi della Foxconn di Shenzhen, in Cina. Nonostante che, se si producesse tutto negli Usa, gli iPhone costerebbero poche decine di dollari in più, garantendo comunque alla Apple un ampio utile.
Oppure la Nike, che in Indonesia (paese prossimo al collasso) fa lavorare giovani donne al ritmo di 100 scarpe di alta qualità all’ora per 83 centesimi.
Tanto che il numero di lavoratori americani che hanno deciso di espatriare e rinunciare alla cittadinanza Usa sta crescendo esponenzialmente: ancora piccoli numeri, ma si dovrebbe considerare che fino a pochi anni fa il fenomeno era perfino impensabile.
Si dovrebbe comprendere, quindi, che coloro che sostengono il “libero scambio” sono gli illusionisti della finanza e i super-ricchi con i loro servi prezzolati – economisti, giornalisti e politici – efficientissimi produttori di disoccupazione nei paesi una volta “sviluppati” e di schiavi nei paesi un tempo “in via di sviluppo”.
Non è certo il popolo americano, o quello che ne rimane, quello che guadagnerà dal Ttip, dal Ttp e da qualsiasi trattato-truffa di questo tipo, né il popolo cinese o indonesiano e nemmeno quello europeo, ma quel 1% o meno di stra-ricchi che decidono di volta in volta sia chi ci governa sia come dobbiamo pensare.
Francesco Meneguzzo