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Il G20 approva la minimum tax: ecco perché è un (inutile) contentino

by Filippo Burla
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minimum tax

Roma, 31 ott – La multinazionali pagheranno finalmente le tasse? Questo l’auspicio sotteso al via libera alla cosiddetta “minimum tax“. L’intesa è stata siglata ieri, in occasione di una delle sessioni del G20 in corso a Roma. Trovando, dopo mesi di discussioni a livello formale e informale, il punto di caduta tra le principali economie del mondo. Un accordo che, tuttavia, rischia di essere la proverbiale montagna che partorisce il topolino. Per almeno tre motivi.

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Partiamo dalle cifre. La minimum tax – che nelle intenzioni dovrebbe vedere la luce a partire dal 2023 – prevede una imposizione del 15% a carico delle multinazionali (specialmente del web) che registrano un fatturato superiore ai 750 milioni. L’aliquota si applicherebbe ai ricavi ottenuti nelle singole nazioni, senza più quindi la possibilità di “spostarli” sotto l’ombrello di sistemi a tassazione più agevolata. In termini di gettito, si stima possa valere fino a circa 130 miliardi di euro l’anno.

La minimum tax non risolve la distorsione della concorrenza

La somma è notevole, ma va divisa tra i 139 Paesi che hanno aderito al patto. Per l’Italia, stando ad una simulazione condotta dall’Osservatorio fiscale europeo, si parla di almeno 2,7 miliardi aggiuntivi. Meglio di zero, certo. Allo stesso tempo, però, praticamente il nulla rispetto al totale delle entrate tributarie che, nel pre-pandemia, superavamo agevolmente i 500 miliardi.

Veniamo così al secondo punto. Di questi 500 miliardi, all’incirca la metà derivano da Irpef e Ires, che a loro volta pesano per quasi il 90% sul totale delle imposte dirette, nel novero delle quali potremo considerare la minimum tax. Ebbene, l’aliquota Irpef più bassa è al 23% mentre l’Ires è ad aliquota unica al 24%. Significa che un lavoratore dipendente con uno stipendio da 1000 euro (lordi) al mese pagherà in proporzione più di una Facebook qualunque, allo stesso modo una Srl dovrà corrispondere all’erario una somma maggiore rispetto a quella pagata ad esempio da Amazon, dovendoci inoltre mettere anche il carico dell’Irap. La già notevole distorsione della concorrenza, insomma, non viene se non minimamente scalfita.

Quale base imponibile?

In ultimo, va osservato come quel 15% non sia per forza di cose la tassazione che sarà poi realmente sostenuta dalle multinazionali. Ad oggi, infatti, l’intesa è solo sull’aliquota. Nulla viene detto in merito alla base imponibile – la cui definizione non è ancora chiara – rispetto alla quale verrà applicata. Qui, al di là delle problematiche tecniche, si gioca un’altra partita: quali saranno le norme per la determinazione del reddito d’impresa? Se addirittura – com’è probabile, data la natura assai peculiare di queste multinazionali – dovessero esservi delle regole particolari, ad esempio in termini di deducibilità, la tassazione effettiva potrebbe persino risultare inferiore a quella auspicata.

Filippo Burla

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