Washington, 17 dic – Con una mossa storica, anche se ampiamente prevista, la Federal Reserve (Fed), ossia la banca centrale statunitense, per la prima volta dal 29 giugno 2006, il 16 dicembre ha alzato i tassi di riferimento per i prestiti interbancari di 25 punti base, portandoli dalla forchetta 0-0,25% a 0,25-0,50%, abbandonando quindi la politica degli interessi zero (Zirp) e, per la prima volta in 11 anni, dando l’avvio a una stretta monetaria.
Le ragioni ufficialmente addotte dal comitato direttivo (Fomc) per una scelta inaspettatamente rinviata nel settembre scorso e allora giustificata con la debolezza dell’economia americana, riguardano in particolare l’aumento dei consumi interni, il miglioramento del settore residenziale e la diminuzione dei tassi di disoccupazione, in misura tale da consentire una sottrazione di fatto dal mercato di una somma dell’ordine di mille miliardi di dollari – a tanto è stimato l’effetto di questa modesta ma importante stretta monetaria.
In realtà, nessuno dei segnali sopra considerati può essere ritenuto nemmeno lontanamente giustificativo della mossa della Fed.
L’aumento dei consumi interni, infatti, che ha riguardato soprattutto il settore automobilistico e più moderatamente quello residenziale, sono da ascriversi esclusivamente all’accesso troppo facile al credito, determinato proprio all’azzeramento dei tassi d’interesse. L’azzardo della Fed potrebbe allora tradursi in una esplosione delle insolvenze rispetto alla quale i mutui subprime del 2008 sono stati acqua fresca. La stessa valvola di sfogo, in termini di redditi individuali e familiari, offerta dall’espansione del mercato azionario – almeno fino all’estate scorsa, perché il 2015 si avvia a chiudere con un ribasso netto, almeno a Wall Street – potrebbe essere tra le prime vittime della stretta monetaria.
Il tasso di disoccupazione è effettivamente e leggermente calato, ma a fronte di un crollo della forza lavoro: milioni di persone non cercano più un’occupazione e spariscono dalle statistiche, così il gioco è fatto. Inoltre, i nuovi posti di lavoro creati non riguardano affatto il settore una volta trainante e qualificato della manifattura ma prevalentemente settori dei servizi e ricreativi, assai meno qualificati.
Allora perché la Fed si è lanciata in un esperimento che rischia di precipitare il gigante d’oltreoceano, e con esso le economie più strettamente collegate come quella europea ma anche molte dei paesi cosiddetti “emergenti”, in una nuova recessione?
Converrà infatti ricordare quanto dichiarato dalla nota economista Gail Tverberg, in esclusiva per questo giornale, un paio di mesi fa: “Non raccomanderei alle banche centrali occidentali di adottare alti tassi d’interesse: essi tenderebbero a portare a un [ulteriore] rallentamento della crescita economica e a seri problemi di default sui prestiti contratti a tutti i livelli. Tuttavia, penso che una nuova recessione sia comunque inevitabile, per cui politiche come Zirp e Qe servono essenzialmente a guadagnare tempo”.
In primo luogo, la stretta monetaria appare funzionale a proteggere il valore del dollaro Usa, minacciato dalla graduale perdita dello status di divisa di riferimento e di scambio nonché dal vero e proprio collasso del commercio mondiale e quindi dalla diminuzione del valore degli scambi in quella moneta. A questo proposito, tuttavia, insieme all’aumento dell’attrazione del dollaro stesso, una possibile conseguenza consisterà nell’aumento dei trasferimenti – più o meno fraudolenti (leggasi in particolare “sovrafatturazioni”) – di capitali dai paesi emergenti, Cina inclusa, verso l’area dollaro, cl risultato di ulteriori svalutazioni e deficit delle rispettive divise e, necessariamente, riduzione delle capacità di importazione.
In questo senso, la scelta della Fed non potrebbe cadere in un momento meno opportuno, dato che nelle stesse ore della sua decisione l’indice più noto e rappresentativo del commercio mondiale, il Baltic Dry Index, cadeva al livello più basso degli ultimi 30 anni, proprio sulla scorta del collasso della domanda cinese (in particolare, ma non solo, di prodotti ferrosi e altri necessari per la produzione di acciaio).
In secondo luogo, la spaventosa accumulazione del debito americano, ma anche delle altre più grandi economie a partire da quella cinese ed europea, rischiava comunque di risolversi in un default di spaventose proporzioni, eventualità che la risoluzione della Fed potrebbe almeno attenuare.
Tuttavia, la stretta monetaria non potrà che tradursi in una stretta creditizia, che in tempi normali sarebbe anche la benvenuta, dal momento che storicamente l’aumento dei tassi d’interesse sui crediti è stato funzionale a estromettere dal mercato le attività o anche interi settori ormai improduttivi, in altre parole “a tagliare i rami secchi” e rendere il sistema complessivamente più efficiente.
Il problema è che i tempi non sono affatto normali, e non solo per l’accumulo di crediti al limite dell’insolvenza accumulati in molti anni di politiche finanziarie le più accomodanti possibile, ma anche perché alcuni settori strategici sono rimasti in vita soltanto grazie all’abbondanza del credito a buon mercato.
Tra questi settori, ve n’è uno che per importanza li supera tutti: quello dell’estrazione del petrolio, con riferimento specifico a quella parte del petrolio americano di scisto i cui costi di estrazione e gestione superano per la gran parte in misura considerevole i prezzi correnti del greggio (35-40 dollari al barile), da mesi in declino (attualmente di circa il 5% sul picco dello scorso marzo) e la cui sopravvivenza è direttamente minacciata anche da un modestissimo rialzo dei tassi come quello appena praticato.
È così che mossa della Fed può essere intesa come una resa alla guerra economica non dichiarata, che di fatto i produttori petroliferi del Golfo, Arabia Saudita in testa, stanno conducendo da oltre un anno ai produttori americani attraverso il diniego alla riduzione delle quote Opec nonostante la debolezza estrema della domanda mondiale.
Il problema è che l’eventuale collasso della produzione petrolifera di scisto americana, eventualmente accompagnata in una possibile reazione a catena sui tassi da quella di molti altri paesi produttori non Opec, tra cui il Canada, ma anche il Venezuela, porterebbe dritti a una drastica riduzione dell’offerta mondiale, innescando una spirale depressiva senza sbocco praticabile.
Comunque la si veda, dato il sottostante della crescita inesorabile dei costi di estrazione del petrolio, illustrata nella stessa intervista concessa dalla Tverberg, la situazione non appare destinata a finire bene, tanto che sono in molti a ritenere che la Fed già nella prima parte del nuovo anno sarà costretta a rivedere le sue posizioni e riportare i tassi verso lo zero, contrariamente al programma ufficiale di ulteriori rialzi e al costo di perdere ogni residua credibilità.
Ironia della sorte, per chiudere, la scommessa dell’Arabia Saudita e compagnia appare letteralmente sfuggita di mano ai suoi stessi maldestri strateghi, considerando che le necessità di bilancio del regno richiederebbero quotazioni del petrolio intorno a 100 dollari se non di più, il che costituisce, dal loro punto di vista, una ragione più che valida per perseguire non solo la guerra in Yemen ma anche la più pericolosa avventura siriana e irachena, alla ricerca disperata di una soluzione per l’esportazione di gas naturale verso l’Europa quale vitale compensazione per il crollo delle entrate petrolifere.
Francesco Meneguzzo