Roma, 29 gen – “Bisogna rivolgersi all’Africa e all’area mediterranea, perché si tratta di un continente che ha molta energia e poca domanda” parola dell’ad di Eni Claudio Descalzi, intervenuto pochi giorni fa al convegno organizzato presso l’Aspen Institute “L’energia del futuro. Nuove fonti e nuovi mercati per Stati Uniti ed Europa”.
Difficile dargli torto, considerando soprattutto l’attuale quadro geopolitico che ha visto ridurre drasticamente il nostro dialogo con la Russia, paese fra i principali interlocutori dell’Europa in materia di approvvigionamento energetico. L’invito di Descalzi si rivolge quindi a tutto il vecchio continente, che dovrebbe impegnarsi a “connettere tutta la rete di trasporto e gli stoccaggi, basandosi su un quadro regolatorio comune” e a “puntare su un corridoio Nord-Sud”.
La razionalizzazione e l’armonizzazione del sistema, in tempi di scarsa domanda e tensioni sul fronte dell’approvvigionamento, sembra una valutazione più che auspicabile. E proprio sull’integrazione dei singoli mercati energetici, l’Europa sta lavorando da diversi anni con risultati progressivamente più consistenti. Da valutare con più attenzione sembra invece essere l’esortazione a impegnarsi sul corridoio Nord-Sud.
Per quanto riguarda il nord, l’impegno di Eni è sempre stato costante: Inghilterra, Belgio e Norvegia sono paesi dove il cane a sei zampe è presente da decenni. E proprio in concomitanza con il convegno all’Aspen, il ministro del Petrolio e dell’Energia norvegese assegnava a Eni due licenze esplorative nel Mare di Barents e nel Mare del Nord, confermando un legame iniziato nel 1965 e che produce attualmente più di centomila barili al giorno, attraverso la controllata Eni Norge. Ancora verso sud, la presenza della multinazionale controllata dal ministero dell’economia può vantare una presenza più che matura in Congo, Angola e Ghana. Più complicato l’affare in Mozambico, dove le pesanti fluttuazioni di prezzo e il calo della domanda rendono via via più onerosi gli investimenti necessari allo sfruttamento dei giacimenti. Del resto tali criticità stanno impattando l’intero mercato petrolifero mondiale.
È però difficile, quando si parla di Mediterraneo e di petrolio, non pensare alla perdita di posizioni che l’industria petrolifera italiana ha subito in Maghreb negli scorsi anni, proprio quando sembrava consolidarsi un rilancio del ruolo dello Stivale nell’area. Non solo la Libia, bombardata dai francesi e consegnata per chissà quanti anni alla guerra civile, ma anche l’Algeria. In questo caso a tornare alla mente è la vulnerabilità interna delle nostre mire energetiche sulla sponda meridionale del Mediterraneo: a metà gennaio la procura di Milano ha terminato le indagini per una presunta tangente di 198 milioni, pagata dai vertici Eni all’allora ministro algerino Khelil, con l’obiettivo di ottenere commesse per oltre otto miliardi di euro. Per questo a fine 2012 saltarono i vertici Saipem, così come il titolo della controllata, che perse quasi 10 punti in pochissime ore.
Date le premesse e fermo restando il quadro attuale, l’invito di Descalzi lanciato in casa Aspen a pensare “una connessione che abbiamo avuto modo di proporre, un’alternativa virtuosa con un’energia che non è cara” suona difficilmente realizzabile.
Armando Haller