Pechino, 31 mag – Un recente intervento del noto analista, giornalista economico e saggista John Rubino offre una spiegazione concisa ed elegante della fine di fatto della globalizzazione sotto un mare di eccedenze. Se del petrolio si è detto e scritto di tutto, spesso a sproposito e seguendo compulsivamente i saliscendi dell’eccesso di offerta rispetto alla domanda, è sulla seconda commodity più importante per l’industria – l’acciaio – che emerge una realtà più netta e quasi scioccante.
Nell’ultimo decennio, infatti, il governo cinese, per mezzo di una politica creditizia più che accomodante, ha consentito che all’industria dell’acciaio fossero concessi trilioni di dollari di prestiti facili in modo da quadruplicarne la produzione (lo stesso è avvenuto per il cemento e altri prodotti industriali di base), e consentirne l’esportazione a prezzi nettamente inferiori rispetto ai prezzi di mercato altrimenti vigenti. Il problema è che la domanda non è affatto cresciuta, per cui ai due principali mercati del mondo – Usa ed Europa – l’evoluzione cinese non è andata tanto a genio. Tutt’altro: quali misure anti-dumping, gli Stati Uniti hanno deciso di caricare sulle importazioni di acciaio da Pechino dazi fino oltre il 200% (includendo però anche India, Korea, Taiwan e perfino l’Italia), mentre l’Europa si sta attrezzando nello stesso senso, come dichiarato al recente G-7 in Giappone. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker ha infatti apertamente accusato la sovraccapacità produttiva cinese di aver contribuito alla “perdita di migliaia di posti di lavoro [in Europa] dal 2008”, aggiungendo che l’Unione “appronterà misure commerciali difensive” in linea con i regolamenti dell’organizzazione mondiale del commercio (Wto). Dicasi protezionismo, preteso dai produttori di acciaio americani ed europei.
Se può essere comprensibile che i dirigenti cinesi abbiano cercato in ogni modo di garantire la crescita del sovrappopolato gigante asiatico, sorge la domanda sul destino di tutto quell’acciaio che è e rimarrà evidentemente invenduto. Questo potrebbe essere commercializzato al di fuori degli spazi americano ed europeo, ovviamente a prezzi ancora più bassi, col risultato di estromettere da quei mercati i produttori concorrenti. Oppure, immagazzinato per un eventuale uso futuro, abbassando la domanda per nuova produzione e conseguentemente i prezzi. Infine, molte delle nuove acciaierie cinesi potrebbero chiudere, lasciando sulla strada masse sterminate di lavoratori e deprimendo ulteriormente la crescita cinese e mondiale. In ogni caso, tutto punta verso la depressione e la deflazione.
Un altro problema è che l’acciaio rappresenta soltanto una delle merci e settori afflitti da sovraccapacità – un’altra merce è appunto il petrolio, i cui produttori continuano a pompare senza freni anche per le ragioni esposte di recente su queste colonne, mentre un altro settore chiave è quello dell’edilizia (mai così tanto invenduto nel mondo). I pessimi investimenti passati, cioè la cronica inefficienza che dall’inizio di questo secolo è dilagata nell’economia globalizzata, sono quindi all’origine del rallentamento della crescita reale (o, più probabilmente, della decrescita) e della spirale deflazionaria, mentre governi e banche centrali non possono trovare di meglio che ricorrere a politiche monetarie ancora più accomodanti nel disperato tentativo di stimolare la domanda, in realtà provocando sempre nuova inefficienza e sovraccapacità. Finché potrebbe non essere più sostenibile la produzione di quote crescenti di beni essenziali per l’industria di trasformazione, trascinando verso il crollo l’intero castello della globalizzazione capitalistica. Fin qui John Rubino e il suo ragionamento sembra filare piuttosto liscio. Quello che però non dice è ancora più grave: in primo luogo, se la domanda non è affatto cresciuta, la ragione va ricercata nella diretta e inevitabile conseguenza della compressione delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori ordinari in tutto il mondo sviluppato (praticamente, ancora, Usa ed Europa), ma più profonda e sottile ancora è la causa sottostante, che rimanda al costo crescente di estrazione delle materie prime (petrolio e non solo). Se occorre investire più denaro, o meglio ancora più energia, per estrarre la stessa quantità di energia o di altre materie prime, ne rimane infatti disponibile in minore quantità per tutte le altre attività, con conseguente perdita di qualità e quantità di lavoro e quindi di retribuzioni, infine di domanda. Con questo, finisce il gioco della globalizzazione espansiva e rientrano in campo le ideologie più distruttive della storia, quelle che oggi approfittano della mondializzazione stessa per distruggere le identità e materializzare l’incubo del proletariato universale senza volto, senza identità né voce.
Francesco Meneguzzo