Roma, 23 nov – Ieri a Palazzo Chigi si è svolto un Consiglio dei Ministri straordinario. L’oggetto del contendere è stato il salvataggio delle quattro banche in amministrazione straordinaria: Popolare Etruria, Banca Marche, Carife, e CariChieti . Il decreto legge sarà una strada alternativa al nuovo meccanismo europeo del bail-in.
La direttiva europea poteva costare cara ad un eccellente membro dell’esecutivo. Ad esempio, il ministro Maria Elena Boschi è azionista della Banca dell’Etruria; e suo padre Pier Luigi è stato presidente dell’omonimo istituto, posto in amministrazione straordinaria da Bankitalia dopo una gestione assai disinvolta del babbo della ministra.
Purtroppo, però, il vero conflitto di interessi è un altro. Per capire meglio chi ci guadagnerà da questo decreto salva-banche bisogna lo schema che il governo probabilmente adotterà. Il meccanismo dovrebbe essere il seguente: si creano quattro good bank da ricapitalizzare per poi cederle sul mercato e quattro bad bank per liquidare in tempo ragionevole gli asset in sofferenza. La domanda ora sorge spontanea come diceva Lubrano. Chi mette i soldi per ripianare questi debiti? Le banche. Sì è proprio così. Per chi avesse dei dubbi basta rileggersi le dichiarazioni, rilasciate qualche giorno fa, dal presidente dell’Abi (Associazione Bancaria Italiana) Antonio Patuelli.
In un’infuocata conferenza stampa, dopo la riunione del comitato esecutivo dell’associazione, Patuelli ha dichiarato: “Le banche italiane sono tanto determinate a realizzare i salvataggi dei quattro istituti in crisi, che hanno deciso unanimemente di destinarvi 2 miliardi di euro di risorse private. Cosa si può chiedere di più alle banche? Più che pagare di tasca propria, cosa si possono inventare?“.
Nessuno si aspettava tanta generosità da parte dei signori del credito. Eppure, il meccanismo è leggermente più complesso. Intanto, il gravoso compito di gestire le quattro bad bank spetterà a Bankitalia, in particolare, all’Autorità di gestione delle crisi che già è stata istituita a Via Nazionale da un decreto legge approvato la settimana scorsa.
Una delle ipotesi messe in campo sarebbe quella di una linea di credito (un maxi prestito di 3,5 miliardi di euro) da parte delle maggiori banche italiane: Intesa e Unicredit. Guarda caso queste ultime sono le più importanti azioniste della nostra ex Banca centrale. Intesa SanPaolo ha il trenta per cento di quota, Unicredit il ventidue per cento sempre con lo stesso numero di voti all’interno del Cda. A vegliare sulla correttezza di queste operazioni ci sarà ovviamente Bankitalia. Ecco il vero conflitto d’interessi!
Banca d’Italia, ormai una spa a tutti gli effetti, non vigilia sul nostro sistema creditizio al massimo fa il vigilantes, il metronotte. Chi comanda paga e decide.
Tanti esperti hanno detto che questa soluzione ricorda quella fatta venti anni fa con il Banco di Napoli. Non è proprio un bell’esempio. Infatti, il più antico istituto di credito del meridione, nel giro di pochi anni divenne una succursale di San Paolo Imi oggi (Intesa San Paolo).
Fino al primo luglio del ’91 era una banca pubblica. Viene trasformata in società per azioni e le azioni attribuite alla Fondazione. Quando il Banco divenne spa si fecero valere delle plusvalenze e si ritenne che il capitale della banca fosse maggiore. Risultato: perdite di oltre tre mila miliardi di vecchie lire, dodici mila miliardi di crediti in sofferenza. Correva l’anno 1996. Prima si mosse il Tesoro riuscendo ad ottenere la quota maggioritaria del 70 per cento. Poi lo stesso Tesoro, rifiutò l’offerta di Mediocredito centrale per 300 miliardi di vecchie lire e accettò sessantuno miliardi da Bnl-Ina. Poi il San Paolo rilevò il sessanta per cento delle azioni del Banco. La Consob impose al San Paolo un’Opa obbligatoria. Se il Tesoro avesse voluto, poteva restare. Invece preferì lasciare in mano ai privati.
Se questo è avvenuto con una delle principali banche nella storia del nostro Paese, cosa pensate che possa accadere a quattro piccoli istituti di credito?
Purtroppo, il governo Renzi ha scelto una strada che già in passato si è rivelata fallimentare.
Ma, se la Storia è maestra di vita, val la pena ricordare che si può salvare una banca senza consegnare i risparmiatori in mano alla finanza speculativa. Durante la crisi del 1929 la Banca Commerciale Italiana (Comit) navigava in pessime acque. Rischiava il crack. C’erano in ballo i risparmi di una vita di molti italiani e tanti posti di lavoro. Sarebbe stato un colpo al cuore per il ceto medio italiano. Qualcuno decise di nazionalizzarla. Era il 1934. Rimase pubblica fino al 1994.
Fu per sessanta anni protagonista della vita economica del nostro Paese. Poi la Comit venne privatizzata con la vendita del pacchetto di maggioranza sul mercato da parte dell’IRI. Advisor per l’operazione di collocamento fu la banca Lehman Brothers. Infatti, nel 2001 fu assorbita da Banca Intesa. In soli quindici anni hanno fatto sparire la banca che aveva superato la crisi del 1929.
L’insegnamento da trarre è semplice: quando il mercato fallisce, solo lo Stato può e deve trovare la soluzione giusta nell’interesse della nazione.
Salvatore Recupero