Roma, 24 feb – Il commercio marittimo mondiale, responsabile di circa il 70% del trasporto delle merci anche grazie allo sviluppo dello standard dei container, si sta apparentemente avviando al collasso.
La misura universalmente accettata dagli analisti per valutare lo stato del commercio marittimo è il cosiddetto Baltic Dry Index, o BDI, un indice giornaliero dei prezzi del trasporto di materiali grezzi e materie prime, come minerali, ferro, componenti in acciaio, carbone, grani, e così via, cioè il costo pagato da un cliente finale a una compagnia di trasporto per portare i materiali attraverso i mari, tale costo essendo costruito sul mercato globale del brokering dei contratti di trasporto, il Baltic Exchange.
Tale indice BDI, espresso in dollari Usa, può essere utilizzato come un indicatore economico globale dal momento che indica la direzione (aumento o diminuzione) dei prezzi finali per le merci semilavorate o finite che utilizzano le stesse materie prime trasportate via mare, ed è considerato particolarmente “puro” in quanto non condizionato da contratti future e altri derivati finanziari che influenzano per esempio il prezzo delle usuali commodity come il petrolio, essendo inoltre legato unicamente all’economia reale: merci esistenti, navi effettivamente pronte al trasporto. Non è, in pratica, affetto da azioni speculative.
Di più, trattando di materie prime, il BDI è un ottimo precursore dello stato futuro della produzione industriale.
Infine, pur essendo parzialmente legato al prezzo del petrolio, in quanto il carburante rappresenta la componente di costo relativamente maggiore per i trasporti marittimi, il BDI, quindi i prezzi dei trasporti marittimi formati sul mercato, variano generalmente molto più bruscamente. Per comprenderlo, è sufficiente pensare alla differenza che esiste tra una situazione in cui 100 navi competono per 99 carichi e un’altra molto simile in cui 99 navi competono per 100 carichi: nella prima, avremo prezzi molto bassi, nella seconda prezzi molto più alti.
Il Baltic Dry Index ha raggiunto in questi giorni il minimo storico, appena superiore a 500 dollari, molto pericolosamente prossimo ai costi vivi del trasporto marittimo e quindi al livello di blocco pressoché completo di gran parte del commercio mondiale.
La Reuters, ripresa dal prestigioso sito di analisi economiche e finanziarie ZeroHedge, riporta che una terza grande compagnia di trasporto merci via nave, la sud coreana Daebo International Shipping Co Ltd ha dichiarato bancarotta questo mese, in seguito a un collasso nelle tariffe di trasporto merci ai minimi storici, in quello che i trasportatori chiamano le peggiori condizioni di mercato dagli anni ’80 del secolo scorso, anche peggiori di quelle seguenti alla prima fase della crisi economica del 2008.
La domanda sempre più debole dalla Cina e una eccessiva disponibilità di navi ha portato il sistema dei trasporti verso condizioni molto critiche, mentre il BDI ha perso circa due terzi del valore negli ultimi 15 mesi.
Prima della grande compagnia sud coreana, altri due gruppi, uno cinese e l’altro danese, sono fallite in questo stesso mese di febbraio. “La combinazione di una minore domanda di acciaio in Cina e l’enorme volume di nuovo tonnellaggio [navale] entrato in operazione è ciò che sta causando il panico e rendendo questo il peggior momento per il mercato del traporto marittimo da quando questo è monitorato”, ha dichiarato Hsu Chih-chien, presidente della enorme compagnia Courage Marine quotata alle borse di Hong Kong e Singapore.
Pare quindi che il sostegno finanziario all’economia mondiale, tentato con una successione impressionante di operazioni di quantitative easing (QE), cioè di inondazione del mercato con liquidità fittizia, non coperta dalla effettiva produzione e consumo di beni da parte dell’economia reale, abbia esaurito il proprio effimero potenziale, a fronte di risorse primarie sempre più scarse e costose e dell’assottigliarsi dei margini di riduzione dei costi di produzione attraverso la compressione dei salari, risultando in una spirale deflazionistica globale da cui non sarà possibile uscire rimanendo sul percorso della globalizzazione.
Un ulteriore sinistro elemento potrebbe sussistere, non slegato da questo quadro abbastanza drammatico e per di più concorrente ad aggravarlo ulteriormente: l’anomala costituzione di scorte di tutte le materie prime strategiche da parte delle grandi potenze, in primo luogo gli Usa, ma anche Cina e Russia, sia all’intero dei propri territorio sia in altre aree strategiche del mondo da esse controllate.
Si tratterebbe in primo luogo del petrolio, del cui accaparramento strategico esistono numerose evidenze oggettive sia in Usa che in Cina, che ovviamente può essere spiegato in primo luogo con il vantaggio dei prezzi bassi a loro volta assicurati dalla prosecuzione del pompaggio ai massimi livelli da parte degli stessi Usa, che però è apparentemente auto-distruttivo rispetto all’industria del fracking. A meno che, appunto, non sia giustificato dalla necessità di costituzione di scorte strategiche.
Lo stesso vale per le altre materie prime strategiche, il che contribuirebbe a spiegare la pesantissima contrazione del commercio globale e – non secondariamente – della circolazione del dollaro Usa, sulla base del quale sono contrattati i trasporti marittimi.
Se questo ultimo scenario dovesse rivelarsi sensato, in pratica se gli Usa avessero rinunciato a competere sul mercato globale per mezzo della propria industria e dell’imposizione “quasi pacifica” della propria moneta come unità di riserva e di scambio, non sarebbe lontano dalla realtà rappresentare la fase corrente come quella di preparazione a confronti bellici di grande scala.
Francesco Meneguzzo
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