Roma, 8 giu – La crisi borsistica di Wall Street del 1929 rappresenta uno degli avvenimenti più celebri ed esplicativi delle contraddizioni dell’alta finanza speculativa americana.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale la ripresa economica è trainata dalla crescita esponenziale degli Stati Uniti. Del resto la superpotenza americana, pur partecipando attivamente alla Grande Guerra, non subirà mai distruzioni all’interno del proprio territorio e di conseguenza non incorrerà in contraccolpi devastanti dal punto di vista economico. Inoltre nel periodo che va dal ’23 al ’29 la produzione industriale aumenta del 30% e il boom viene accompagnato da una crescita generalizzata del settore terziario e dei consumi. Questo arco temporale di relativa prosperità, sicuramente ricco di contraddizioni sociali, è basato sulle innovazioni tecnologiche avanguardistiche del settore automobilistico, che infusero all’interno della società americana un sentimento comune di ottimismo.
La bolla speculativa
Al diffuso clima favorevole in un primo momento contribuì anche la borsa. La crescita costante delle quotazione spinse infatti le persone ad arrischiare i propri risparmi, creando una bolla speculativa, che si sviluppò rapidamente in modo particolare dopo l’insediamento di Hoover nel 1928. Il capitalismo americano è anonimo dal punto di vista societario: si comprano azioni e le si rivendono sulla base di un presunto profitto. Tutto sommato gli investitori e i brokers guadagnano non secondo il reale andamento produttivo delle società su cui si investe, ma secondo la legge della domanda e dell’offerta, perciò più la richiesta è alta più una determinata azione sarà valutata. Già da questa caratteristica si può intravedere un pericolo di collasso: non è previsto nessun controllo esterno sull’attività borsistica da parte dello stato o da organi d’ispezione, ma sono gli stessi investitori che speculano sull’attività delle aziende come se fossero all’interno di un ‘gioco’ o di una ‘scommessa’.
La crisi di Wall street ha come causa il diffondersi nell’opinione pubblica che dietro alle azioni di alcune grandi società di capitali non vi siano in realtà attività economiche e produttive che ne giustifichino il valore. La Borsa smise quindi di crescere e le azioni crollarono più rapidamente di quanto avevano impiegato ad aumentare. Fu un tracollo: i risparmi di una vita di milioni di americani svanirono nel nulla e tra il 24 ottobre (giovedì nero) e il martedì successivo ben 11 brokers si suicidarono. Il disordine finanziario si tramutò in depressione nel momento in cui inevitabilmente la produzione industriale venne colpita. La crisi finanziaria infatti rendeva molto più difficile la creazione di nuove imprese o la realizzazione di nuovi investimenti, d’altro canto vi fu un’improvvisa riduzione della domanda di beni di consumo con il conseguente fenomeno di licenziamento massivo degli operai e lavoratori dalle fabbriche. Non essendoci una banca centrale capace di arginare la crisi, in questo periodo falliranno non meno di 4996 banche e milioni di famiglie saranno lasciate sul lastrico.
Politiche inflazionistiche come risposta
La crisi finanziaria (e sociale) americana arrivò in poco tempo anche in Europa, in particolare modo in Germania, Francia, Inghilterra e, in misura relativamente minore ma sostanziale, in Italia, nazione che aveva già cominciato ad adottare politiche economiche di tipo keynesiano. Ci saranno poi Paesi come la Russia Sovietica che di fatto non subiranno danni a livello economico, ma più in generale il commercio internazionale crollerà del 40%.
Nel 1932, anno in cui l’economia americana era nel suo punto più basso, vinse le elezioni il candidato democratico Franklin Delano Roosevelt. La sua politica, molto semplice, mirò a infondere nuova fiducia in un ceto medio oramai tartassato attraverso i discorsi radio del ‘caminetto’. Roosevelt pianificò un cambiamento radicale della politica economica statunitense articolando il cosiddetto ‘New Deal’, all’interno del quale associò la ripresa economico-finanziaria a riforme sociali, attuando un energico interventismo statuale. I sussidi di disoccupazione, i prestiti mobiliari agevolati, la svalutazione del dollaro, le misure strutturali in favore dell’agricoltura e il nuovo codice comportamentale per i prezzi dei beni applicati dalle aziende, uniti ad una riforma fiscale progressiva, permisero a Roosevelt di tamponare almeno parzialmente una crisi che era diventata dilagante e di porre le basi per una successiva crescita economica, che di fatto si intravedrà solo alla fine della seconda guerra mondiale.
La crisi della Borsa di Wall Street rappresenta non solamente una sconfitta dell’attività speculativa del capitalismo finanziario, ma evidenzia anche come in momenti di crisi sia necessaria l’adozione di politiche inflazionistiche a sostegno della collettività, a patto che siano ovviamente legate ad un aumento in termini di PIL. A 90 anni da questo tragico avvenimento risulta quindi importante interrogarsi sia sull’effettiva funzionalità di un sistema economico mondiale che dà per scontata la veridicità dell’economia liberista, sia sulle pericolosità di un’Europea così legata alla Borsa e alle attività speculative delle società e dei grandi capitali.
Franco Gottardi