L’annuncio fatto nel mese di marzo lasciava forse trasparire poche speranze: chiusura del sito produttivo, trasferimento della produzione in altri stabilimenti del gruppo lontano dall’Italia (Bari, per la precisione). La notizia significava la perdita dell’occupazione per 950 lavoratori, senza considerare ovviamente l’indotto che un’attività manifatturiera sa garantire. Ad una prima analisi sembrava che la decisione di Bridgestone non avesse né capo né coda: nel 2012 l’azienda ha ottenuto il miglior risultato degli ultimi tempi, trend secondo le previsione in via di conferma nell’anno corrente con un utile netto che si prospetta prossimo ai due miliardi di euro. Da un punto di vista globale la società giapponese non sembrava quindi dover procedere con immediata urgenza al taglio di capacità produttiva al fine di recuperare eventuali margini. Eppure, scendendo più in fondo nelle ragioni addotte, emergono due delle criticità ormai ataviche nel nodo del tessuto imprenditoriale italiano: inefficienza delle infrastrutture (specialmente di trasporto) e alto costo dell’energia. Motivazioni che spingono imprenditori a i delocalizzare non solo nei paesi dove il costo del lavoro è nell’ordine di un decimo rispetto all’italiano, ma anche in contesti marcatamente più benestanti e che però garantiscono maggiore stabilità in termini principalmente di sistema fiscale e burocratico. Esempi tipici in tal senso sono l’Austria e la Svizzera, che propongono le proprie “offerte” di insediamento fin sulle maggiori testate nazionali.
Tornando al caso di partenza, l’uso del tempo verbale passato non è scelta stilistica: è notizia recente, infatti, che Bridgestone torna sui propri passi con la decisione non solo di mantenere l’impianto di Bari, ma di potenziare le linee con investimenti per 31 miliardi di euro. Nello specifico, Bridgestone riconvertirà lo stabilimento garantendo occupazione a 600 addetti, mentre i restanti 350 si vedranno, oltre alla concessione della mobilità, corrisposte 60 mensilità come incentivo.
Conversione sulla via di Damasco? Non proprio, tanto più che non sembra in questo momento proprio una delle strade più sicure del medioriente. L’investimento sarà infatti finanziato al 40% da Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa. Sorta nel 1999 come Sviluppo Italia, assume l’attuale denominazione nel 2007 e ha come propria missione il favorire l’attrazione di investimenti esteri, sostenere l’innovazione e la crescita del sistema produttivo con particolare riferimento al mezzogiorno.
Nessuna apparizione mistica, dunque, ma ritorno dello Stato a definire un abbozzo di politica industriale. Risulta tuttavia curioso che tale intervento diretto avvenga proprio in concomitanza della crisi di un governo che nelle parole del ministro Saccomanni aveva riaperto la pratica privatizzazioni.
Filippo Burla