Roma, 4 dic – Venerdì il Consiglio di Stato ha bloccato l’iter di attuazione della riforma delle banche popolari varata l’anno scorso dal governo Renzi. Il Tribunale di secondo grado della giustizia amministrativa ritiene dunque legittimi i dubbi sulla costituzionalità del provvedimento. L’ultima parola spetterà alla Consulta. Cerchiamo di capire meglio l’oggetto del contendere. Si tratta del famoso decreto legge del 24 gennaio 2015 che aveva imposto alle banche popolari con un patrimonio superiore agli otto miliardi di euro di superare il voto capitario e diventare spa. Questa sentenza, dunque: “Accoglie interinalmente, in parte, l’istanza cautelare e, per l’effetto, sospende parzialmente, con le sentenze appellate, l’efficacia dell’impugnata circolare della Banca d’Italia”. È bene analizzare nel dettaglio cosa prevedeva la fantastica riforma targata Renzi. Il decreto sulle popolari attribuisce alla Banca d’Italia un ruolo senza precedenti. Giorgio Vitangeli, direttore de La Finanza sul Web e giornalista economico di grande esperienza, ci aiuta a capire meglio il contenuto di questo decreto legge. Secondo Vitangeli con questa legge s’introduce “una norma che non esiste per nessuna società per azioni. In parole povere: ad insindacabile giudizio della Banca d’Italia il socio di una banca popolare può essere costretto a continuare ad essere socio, anche se non lo vuole, ed il suo investimento praticamente sequestrato, se esso è necessario ad assicurare che la banca conservi i requisiti patrimoniali richiesti dall’autorità di vigilanza”.
Altri sono, però, i motivi che rendono dannosa la rottamazione del sistema di governance delle banche popolari voluta da Renzi. Il governo, partendo dai presupposti sbagliati, giunge a risultati che non possono non essere errati. Intanto, è risibile la congettura secondo la quale il voto capitario violerebbe il principio di democrazia penalizzando quei fondi che partecipano con ingenti capitali. Inoltre, si afferma che, aprendosi al mercato globale, esse potrebbero attrarre investimenti nazionali ed internazionali rendendole così più grandi e più competitive. Tutte supposizioni basate sul dogma secondo cui le banche per essere credibili devono aggregarsi ed agire nell’iperuranio della finanza globale. Compito della politica, però, è costruire il futuro e non subirlo. Senza sconfinare nell’utopia possiamo dimostrare che anche all’interno del mondo della finanza ci sono voci autorevoli che smentiscono il pensiero unico liberista e bancocentrico. Per esempio l’economista tedesco Richard Werner, direttore del Centro Studi Bancari dell’Università inglese di Southampton, ha scientificamente dimostrato che sono proprio le banche popolari il vero motore della creazione di credito produttivo e dell’ampliamento della base monetaria necessaria al sostegno della ripresa economica.
Su questo tema, però, l’Italia non deve prendere lezioni da nessuno. Correva l’anno 1937 quando veniva promulgata la prima legge che regolava il settore del microcredito rurale e artigianale. In particolare è bene segnalare alcuni punti essenziali di questo provvedimento. Intanto, veniva stabilito uno Statuto generale valido per tutte le banche di questo tipo, denominate Casse rurali ed Artigiane. Poi, era estesa a tutto il territorio nazionale, la possibilità di accedere al credito specifico. Insomma, le piccole aziende rurali ed artigiane potevano godere di condizioni particolari e favorevoli. Dopo la caduta del fascismo, le Casse rurali e Artigiane cambiarono denominazione diventando Banche di Credito Cooperativo o Banche popolari. Una scelta dettata da un mimetismo semantico figlio della censura antifascista. La sostanza, però non cambiava e non cambia: ogni istituto di credito per agire in maniera efficace ed efficiente deve avere un legame profondo nel territorio in cui opera e un target di riferimento. Tornando ai giorni nostri, speriamo che la sentenza del Consiglio di Stato sia il granello di sabbia che blocchi la rottamazione delle banche di credito popolare voluta da Renzi.
Salvatore Recupero