Roma, 21 apr – Da inizio aprile è in distribuzione presso le librerie d’Italia l’ultimo libro di Alain De Benoist La Fine della Sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli (Arianna). La prefazione al saggio del pensatore francese è stata curata da Eduardo Zarelli, docente universitario presso l’Università di Bologna. Saggista e pubblicista, Zarelli è fondatore e co-editore della Arianna Editrice.
Zarelli, nella prefazione al libro di Alan De Benoist «La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli» parla di crisi-strutturale della forma capitale. Cosa intende?
Il capitalismo è chiaramente, sin dalle origini, un sistema che spinge alla soppressione delle frontiere, in quanto è proprio della sua essenza aspirare a un mercato sempre più vasto, illimitato. La forma-capitale non riconosce alcun limite ontologico, quindi neppure alcun ostacolo politico, etico, sociale o economico. Quella in corso, infatti, è solo la più recente e ampia crisi strutturale. È una crisi che non può essere governata, perché segna il punto d’arrivo di un modello di sviluppo basato sulle crescite esponenziali. La crisi non si limita ad aspetti congiunturali, le sue cause sono strutturali, sistemiche, da individuare in una crescita smisurata e nel conseguente ricorso a vari tipi di indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari mobilitati per un valore totale otto volte superiore al PIL reale), monetario (il denaro emesso è dodici volte il PIL mondiale), pubblico (sia quello contratto dai vari Stati con altri Stati, sia quello verso i propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di credito ecc.). Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino, il “capitalismo pneumatico” usa qualsiasi strumento: la leva finanziaria e il signoraggio del dollaro in primis, oltre all’illusoria stampa di carta moneta. Nonostante tutto ciò, però, la “crescita” non arriva, e non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo. L’intensificarsi delle crisi rende sempre più stringente il dilemma: continuare a inseguire il benessere materialistico attraverso la crescita dei beni e dei servizi immessi sul mercato, pur sapendo che i costi ambientali e sociali per le popolazioni della Terra superano di gran lunga i benefici, oppure cambiare rotta usando strumenti di riferimento diversi dal dettato economicista? L’alternativa infatti è ideologica, risponde a un mutamento radicale di paradigma: rifiutare il primato dell’economia, smettere di volere “sempre di più”.
Qual è stato il percorso che negli anni ha portato alla degenerazione delle economie di tutte le nazioni europee? Quali i trattati europei maggiormente colpevoli di questa situazione?
I debiti nelle economie industriali mature, a partire dagli Stati Uniti (il Paese più debitore al mondo), hanno cominciato a crescere già a cavallo degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. L’immissione di crediti si è resa necessaria, perché si erano inceppati i normali meccanismi di profitto-accumulazione-investimenti-riproduzione, fino a quel momento garantiti dai tradizionali cicli economici produttivi industriali. I Paesi europei hanno seguito a ruota la tendenza occidentale, e il Partenariato transatlantico sul commercio e sugli investimenti (TTIP) ora in discussione, nel perverso connubio con l’espansionismo mondialista della NATO, rafforza tale tendenza, data la totale deregolamentazione del commercio. Sono orientate in tal senso le decisioni prese dall’Unione europea con il Meccanismo europeo di stabilità (MES), il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance (TSCG), che equivalgono a un totale esproprio di ciò che rimaneva della sovranità delle nazioni. Questi trattati hanno in comune il fatto di proseguire sulla via della privazione di sovranità e dello smantellamento delle istituzioni democratico-partecipative, dell’abbandono dei modelli sociali europei, a favore di governances tecnocratico-oligarchiche.
I Parlamenti nazionali – subalterni, e quindi complici – sono amputati di una delle loro principali ragioni d’essere: il potere di decidere le entrate e le spese dello Stato, ruolo ormai trasferito alla Commissione europea. Se aggiungiamo il fatto che l’Euro è una moneta a capitale privato, una società per azioni con scopo di lucro, priva quindi di titolarità e responsabilità politico-sociale, ci sono tutti gli elementi perché si chiuda il perverso circuito dell’autoreferenzialità del mercato finanziario internazionale speculativo. La sovranità monetaria è sostanziale, e all’oggi i Popoli si ritrovano debitori di quella moneta, di cui invece dovrebbero essere detentori.
Sulla crisi continuano a speculare le grandi agenzie di rating. Quanto e come queste agenzie hanno inciso sulla crisi dell’Eurozona?
Significativamente, sono parte in commedia. Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch vengono presentate come società neutrali, quando invece sono espressione proprietaria dei trust bancari. Le valutazioni del debito dei Paesi in crisi sono direttamente proporzionali ai profitti speculativi del mercato finanziario. Il rating, benché venga presentato come un servizio fornito agli investitori, in realtà è un meccanismo monopolizzato dalle tre grandi società anglosassoni, che si accaparrano il 95% del mercato. Insomma, il circolo vizioso dell’usura è una spirale perfetta: gli Stati in deficit si indebitano al tasso d’interesse determinato dal giudizio di chi è direttamente contiguo alle banche creditrici; più gli Stati rimborsano, più si indebitano, e meno si sviluppa l’economia; più vengono colpiti i ceti produttivi e la protezione sociale dei meno abbienti, più le diseguaglianze si divaricano a favore delle posizioni di rendita del capitale, mentre il mercato interno involve nella stagnazione e nella recessione. I profitti sono appannaggio di sempre meno soggetti economici, irresponsabilmente legati all’illusione espansiva della mondializzazione, che esportano nel mercato globale.
Riferendosi al debito pubblico italiano, Lei prevede, nonostante le politiche di sacrifici e austerità degli ultimi anni, una continua crescita. Quali sono i motivi? Quali sono, a Suo avviso, le cause dell’accumulo del debito pubblico italiano?
I motivi dell’accumulo del debito pubblico italiano hanno una profondità storica specifica come spesa improduttiva e sono ovviamente molteplici, ma hanno un denominatore comune nell’irresponsabilità delle clientelari classi dirigenti in simbiosi con l’assistenzialismo e la corruzione dell’impropriamente decantata società “civile”. Fra le principali cause, si possono ricordare i trasferimenti a sostegno delle imprese, l’abnorme espansione occupazionale in ambito pubblico e il mantenimento di inutili carrozzoni con finalità politico-clientelari, così come i privilegi senza pari della professionalizzazione politica della democrazia procedurale; vi è poi, ovviamente, la mancanza di equità fiscale. Le cause esterne sono legate all’impatto della globalizzazione e all’improvvido entusiasmo da essa suscitato nel provinciale ceto imprenditoriale nostrano, che non a caso, delocalizzando, ha pensato di privatizzare i profitti, socializzando le perdite. Se pensiamo poi che l’irrefrenabile debito nazionale si moltiplica negli interessi dovuti agli investitori internazionali, abbiamo l’ulteriore anello del circolo vizioso di una redistribuzione alla rovescia: nelle tasche di pochi si concentra la ricchezza di tutti, in un’evidente deriva oligarchica e plutocratica della democrazia, ma in realtà andrebbe detto del “regime liberale”.
Secondo Lei, il declino italiano non è solo economico; l’economia rappresenta, a Suo avviso, solo l’aspetto più evidente di un degrado sociale profondo. Può spiegare ai nostri lettori cosa intende?
L’economia è l’aspetto più evidente del degrado sociale, ma il declino italiano è qualcosa di più profondo, che ha intaccato nell’intimo la nostra stessa identità antropologica e il nostro senso di appartenenza. Un Paese subalterno in modo imbarazzante all’egemonismo statunitense, dove tutte le istituzioni – dalla Scuola e dall’Università fino alla Magistratura, all’Informazione, alla Pubblica sicurezza, alla Sanità – così come le associazioni professionali e la burocrazia in ogni grado e funzione pubblica, sono pletoriche, incapaci eticamente di spirito di servizio e operativamente di efficacia funzionale, e organizzate per favorire chi vi lavora e non i cittadini, dominate come sono dall’arrivismo manageriale – clientelisticamente legato al potere partitico, al parassitismo impiegatizio e alle lobby sindacali – dal formalismo e da un proceduralismo autoreferenziale, che in realtà copre il basso utile personale, nella rassicurante irresponsabilità collettiva ove ogni desiderio egoistico diviene un diritto individuale, da rivendicare giuridicamente senza pudore e dignità alcuna. Il nostro Paese, all’oggi, sembra la Palestina dei secoli XII e XI a.C., quando governavano i Giudici, per assunto carismatici. Quanto più si impone la cosiddetta “legalità”, tanto più si manifesta l’ingiustizia. Di contro, il termine “comunità” deriva dal latino communitas, che significa comunanza, più persone che vivono un comune destino. “Comunità” ha le sue fondamenta nel vocabolo “comune”, dal latino communis composto da cum, insieme, e munis, che aveva il significato originario di oblazione, dono di sé. In assenza di una palingenetica ricostruzione comunitaria dello spirito pubblico, l’Italia è destinata alla marginalità storica, nel degrado spirituale, civile e culturale.
Per uscire da questa spirale, è necessario ripartire da sovranità e lavoro. Quali sarebbero, concretamente, i provvedimenti necessari?
La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, quindi al destino della comunità d’appartenenza. La crescente consapevolezza dei “limiti dello sviluppo”, che si manifestano esplicitamente nella crisi ecologica, impone che le forze dell’economia reale, invece di rincorrere le asticelle statistiche dell’improbabile “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione, socializzandola nella consapevolezza della sostenibilità e sussidiarietà comunitaria nel campo dell’energia, della tecnologia, dei servizi, dei beni d’uso e consumo, e orientandola verso prodotti a basso impatto, di elevata qualità culturale e durata; un mutamento di paradigma, questo, che sarebbe in grado di dare un nuovo dinamismo ai sistemi produttivi, in un’ottica di evoluzione culturale invece che di crescita quantitativa. Solo rivedendo in chiave comunitaria le forme della partecipazione popolare, si può pensare di liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro, senza la quale la rappresentanza politica è ormai divenuta un simulacro oclocratico. Una comunità delle comunità, per il bene comune.
In quest’ottica, come valuta il governo Renzi e il Documento di economia e finanza che ha recentemente presentato?
Il Partito Democratico (insieme ai sindacati confederali) è l’entità garante degli apparati del potere costituito in simbiosi con gli interessi internazionali. I suoi esponenti sono ora parte significativa dei vertici del potere delle società europee. La globalizzazione è economicamente di destra, culturalmente di sinistra, politicamente di centro. Con Renzi, siamo alla sintesi perfetta della retorica progressista della conservazione del potere. Figura effimera, ma non transitoria, Renzi gioca la carta dell’outsider per distaccarsi dall’immagine consunta dell’élite imborghesita della sinistra, blandendo la frustrazione popolare, che guarda altrove o si astiene. In realtà, nonostante l’abile maquillage, il suo è un governo in perfetta continuità con i precedenti di Monti e di Letta; privo di legittimità elettorale, si impone demagogicamente, nella necessità di costruire un consenso “a posteriori”, frutto di opportunismo e di spettacolarizzazione mediatica. Nel giro di poche settimane, le grandi riforme annunciate e scadenzate ovviamente non si sono viste, affogate nella solita propaganda elettorale fatta di annunci e boutade varie sui privilegi acquisiti, date le imminenti elezioni europee. Il documento di programmazione finanziaria e gli annunci sulle politiche occupazionali e di sostegno alla domanda sono la semplice amministrazione del declino politico, sociale ed economico del Paese. Gli 80 euro in più nella busta paga per i già garantiti, saranno ben poca cosa al netto dell’imposizione fiscale, per un debito pubblico in costante crescita, moltiplicato dalla deflazione e ancorato alla tenaglia della tecnocrazia dell’Unione europea e della speculazione finanziaria internazionale. Sarebbero atti ridicoli, se non ci trovassimo di fronte alla drammaticità di un precariato “universale” e di una disoccupazione montante, che coinvolge il 42% dei giovani, cioè il nostro futuro. La crisi del “capitalismo pneumatico” è di sistema, non ha soluzione nei suoi gangli.
Renato Montagnolo
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[…] Così Alain de Benoist inquadra la mondializzazione in La Fine della Sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli (Arianna), saggio in distribuzione in Italia da inizio aprile e del quale ci siamo già occupati intervistando il curatore della prefazione. […]