Roma, 15 dic – Tutto iniziò nel 1881 quando papa Leone XIII diede l’incarico a filosofi e teologi di analizzare il corporativismo per la costituzione di una definizione. Nel 1884, il corporativismo venne così definito come un sistema di organizzazione sociale che trova il suo nucleo e fondamento nel raggruppare gli individui sulla base delle loro funzioni ed interessi. Tale assetto è configurabile sia come una politica economica che come una politica di orientamento previdenziale per quanto riguarda le categorie professionali economiche di lavoratori.
Il corporativismo fascista
Il corporativismo rappresenta uno dei punti fondamentali della politica economica del Ventennio: lo Stato fascista crebbe fortemente per via di un piano di progressiva nazionalizzazione dell’economia, mediante dazi protezionistici e soprattutto evitando la presenza di un “libero mercato opprimente” con la conseguenza che il sistema lavorativo fu largamente pubblicizzato, con le norme che ne regolavano i rapporti e le dinamiche lavorative di natura sempre meno di origine privatistica. Fu durante questo periodo che avvenne una proliferazione di enti pubblici economici, come ad esempio l’Iri, propulsori di un grande sviluppo a livello nazionale.
La filosofia dell’ordinamento corporativo fu espressa a livello dottrinario mediante la Carta del Lavoro del 1926 (legge 563/1926), l’istituzione del Consiglio Nazionale delle Corporazioni che prevedeva la nazionalizzazione dell’industria, la realizzazione di un’unica rappresentanza sindacale con l’abolizione delle commissioni interne di fabbrica.
Il corporativismo di stampo fascista è così una dottrina, una filosofia politica e sociale che tenta di risolvere i conflitti, gli scontri fra il lavoro e il capitale ponendosi come politica economica e previdenziale opposta al capitalismo tramite l’intervento dello Stato, istituendo delle corporazioni come fondamento della rappresentanza di ogni lavoratore o di categoria professionale. Gli stessi lavoratori potevano contare su uno Stato che poteva aiutarli e rispondeva alle loro esigenze di natura previdenziale e sociale, rispetto a sindacati esterni o autonomi come avviene tuttora, con uno Stato legato ad altri interessi ed i sindacati che non si riconoscono più nel concetto di “socializzazione dell’economia”.
Giulio Romano Carlo
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