Roma, 11 lug – «Io nasco come narratore. Storico mi ci sono dovuto fare perché non c’era nessun altro»: così esordisce Antonio Pennacchi nella premessa a “Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce” (Laterza, 2011), l’agile saggio in cui lo scrittore di Latina propone un affascinante, e per certi versi inedito, itinerario alla scoperta delle “città di fondazione” erette nel Ventennio fascista, su terre sovente strappate alla palude e alla malaria, nella cornice della corposa opera di bonifica e di popolamento di vaste aree del Paese intrapresa dal Regime.
Colpisce, senza dubbio, tale insolito incipit con cui l’autore si presenta, poiché si tratta qui, più che dell’avvertenza che non ci si trova di fronte a un ponderoso tomo accademico, di una stoccata agli “storici di professione”, quelli cioè che, pur essendosi occupati del fascismo, o hanno ignorato il tema delle “nuove fondazioni” littorie oppure sono rimasti fermi al cliché delle “dodici città” del Duce, quando invece, scrive Pennacchi, di città Mussolini «ne ha fatte almeno 147, tra grandi e piccole», e questo quando in Italia «non c’era una lira e tutte le pianure del nostro Paese [..] erano completamente abbandonate da secoli», ridotte a «un deserto paludoso e malarico» che, tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso, «quelli [i fascisti] sono andati a riconquistare», così «tracciando il solco» per coloro che sarebbero venuti dopo (ovvero in tempi di Repubblica democratica). Centoquarantasette città di fondazione, dunque, e non la mera dozzina di nuclei urbani, più o meno grandi e più o meno noti (Littoria, Sabaudia, Pontinia, Guidonia, Aprilia, Pomezia, Mussolinia, Fertilia, Carbonia, Arsia, Torviscosa e Pozzo Littorio), a cui si riduce l’elenco canonico della pigra storiografia ufficiale. Un considerevole numero di nuovi centri abitati, dunque, ognuno dei quali, osserva Pennacchi, si presenta come «una nuova communitas, una nuova scintilla di vita», simile in questo a «una piantina o addirittura solo un seme […] che viene piantato dalla sera alla mattina, poi, se Dio vuole, cresce e s’assesta e diventa una pianta grossa». In ogni caso, un insediamento reale dove prima non esisteva nulla, «una cosa nuova, che prima non c’era». Edificazioni di nuovo conio, dunque, il più delle volte sintesi tra “città giardino” e castrum romano, di cui i costruttori fascisti tendevano a riprendere la planimetria di base (W. Schivelbusch. “3 New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939”, Tropea, 2008).
Tresigallo: la città voluta da Rossoni
Nell’elenco dei 147 insediamenti, che Pennacchi puntigliosamente propone in coda al suo libro, distinguendoli per anno di nascita e tipologia (Comune, villaggio operaio o rurale, borgo di servizio, villaggio turistico: qualcuno forse si sorprenderà di trovare nella lista le località di villeggiatura di Sestriere, Cervinia, Terminillo e Milano Marittima), desta particolare interesse la sezione dell’Emilia-Romagna, non solo in quanto vi è inclusa Predappio (la città natale di Mussolini fu praticamente costruita ex novo tra il 1925 e il 1937), ma anche poiché vi compare Tresigallo, toponimo legato a una delle figure più interessanti e al tempo stesso meno conosciute del Ventennio fascista: Edmondo Rossoni.
Tresigallo, a breve distanza da Ferrara (la città di Italo Balbo che tuttora sfoggia gli edifici pubblici e i quartieri residenziali costruiti dal Regime) e dal borgo di fondazione di Anita (un gruppuscolo di abitazioni attorno alla chiesa, alla scuola e alla Casa del Fascio, inaugurato nel 1939 alla presenza del quadrumviro), è, almeno a conoscenza di chi scrive, la sola fondazione di epoca fascista ad avere ottenuto (nel 2004) il riconoscimento di “Città d’arte” e rappresenta, sotto diversi aspetti, un caso degno di riflessione. Tresigallo innanzitutto non è, a essere rigorosi, una città completamente nuova, iscrivendosi piuttosto, come rileva Pennacchi, non tra le “fondazioni”, bensì (come Torviscosa in Friuli) tra le “rifondazioni” ovvero le costruzioni «di nuove città su insediamenti preesistenti, anche se demoliti alla bisogna a fundamentis». In secondo luogo, se le città di fondazione più famose (in primis quelle dell’Agro Pontino) evocano il ricordo di Mussolini, la (ri)fondazione di Tresigallo è invece, come sopra anticipato, legata a Edmondo Rossoni, già leader del sindacalismo fascista, ministro dell’Agricoltura e membro del Gran Consiglio, che nel progetto della nuova città traspose le sue (e del Regime) concezioni sociali e corporative.
Un richiamo al “sindacalismo integrale”
Tresigallo, come si è detto, non è propriamente una città nuova, in quanto già esisteva in epoca medievale, al confine tra la “Romania” bizantina e le terre passate, nel tardo VI secolo, sotto il controllo longobardo. In seguito dominio estense e poi pontificio, alle soglie del Novecento era ancora un modesto borgo rurale e tale rimase fino a quando, a metà degli anni Trenta, Rossoni (che di quelle parti era nativo e che nel locale cimitero è sepolto), ebbe l’idea di ricostruire l’abitato sulla base di un progetto elaborato con un suo compaesano e protetto, l’ingegnere Carlo Frighi.
Se lo stile architettonico scelto fu prevalentemente il razionalismo (che all’epoca andava imponendosi come quello prediletto dal Regime), l’assetto urbanistico adottato (arioso, rispettoso della vocazione agricola della zona e inframmezzato da numerose aree verdi), rifletteva al tempo stesso l’idea littoria di città di fondazione e le concezioni sindacali proprie di Rossoni e del fascismo a vocazione più sociale. Da un lato, infatti, nella planimetria della città si intuisce quello «schema programmatico» che, a detta di Pennacchi, lavorando non su «strade o zone disegnate» (come un tipico piano regolatore), bensì sulla suddivisione di funzioni e spazi (pubblico e privato, civile e religioso, residenziale e produttivo) operata «per semplici linee sul campo, con squadro, paline e allineamenti di fatto», caratterizza e definisce il concetto stesso di città di fondazione. Dall’altro, visto che della ventina abbondante di luoghi di interesse storico e architettonico, una decina ha a che fare con impianti produttivi e pertinenze abitative delle maestranze, l’insediamento, con la sua coabitazione di impresa e lavoro, richiama alla mente la concezione rossoniana del “sindacalismo integrale”, ovvero quella visione corporativa che mirava a «integrare nelle Corporazioni [così erano definiti, in origine, i sindacati fascisti dei lavoratori] le organizzazioni padronali» al fine di controbilanciare lo strapotere di Confindustria e Confagricoltura e garantire alle associazioni sindacali fasciste «la possibilità di ricoprire un ruolo che, altrimenti, era destinato a rimanere minoritario e su posizioni di retroguardia» (L.L. Rimbotti, “Il fascismo di sinistra. Da piazza San Sepolcro al Congresso di Verona”, Settimo Sigillo, 1989).
Gli spazi funzionali: tra Casa del Fascio e impresa autarchica
Si parlava di spazi e di funzioni e, infatti, a Tresigallo è possibile individuare, in corrispondenza dei relativi edifici, almeno cinque “aree funzionali”, ognuna delle quali riflette un aspetto della cultura politica e della vocazione sociale del fascismo (rossoniano e non solo). Vi è lo spazio civico, contrassegnato dalla Casa del Fascio, idealmente collegata al Sacrario ai Caduti, incastrato nel mezzo della scuola d’infanzia e abbellito, sul lato sinistro, da fasci littori in bassorilievo su pietra del Carso. Segue lo spazio sacro, che dalla chiesa di Sant’Apollinare si allunga fino al cimitero in cui, oltre la soglia a tre archi, si intravede il sepolcro in cui riposa Rossoni.
Alla concezione pedagogica fascista, improntata alla sintesi tra educazione intellettuale e formazione ginnico-militare, rimandano poi la Casa della Gioventù Italiana del Littorio, affiancata dall’edificio adibito a bagno e spogliatoio, e la scuola elementare, un tempo raccordata allo splendido arco razionalista che funge da ingresso al campo sportivo. Lo sforzo del Regime per dotare il Paese di un servizio sanitario e di assistenza moderni si riflette, quindi, nell’ospedale a cinque piani (noto come Colonia post-sanatoriale), oltre che nella sede dell’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia, dedicata alla tutela di madri e bambini in difficoltà, in cui lavorava personale specializzato in pediatria e ostetricia. Ultimo, ma non di minore importanza, è lo spazio della produzione e del lavoro, rappresentativo della sintesi fascista tra ruralismo e impulso industrializzatore, con le costruzioni che ospitavano imprese a vocazione agricolo-industriale e autarchica (una fabbrica di macchine agricole, un canapificio, uno stabilimento per la cellulosa e uno per il lanital, un impianto di lavorazione dei prodotti di allevamento, un mulino per la produzione di energia elettrica e così via), a cui si affiancano, in un accostamento che echeggia le intuizioni olivettiane, i luoghi deputati all’intrattenimento e alla cultura (la sala da ballo “Domus Tua” e il Teatro Cooperativo) e le abitazioni degli operai.
Depotenziamento e “censura dolce”
Tresigallo, dunque, al pari delle altre “città nuove”, rappresenta il luogo ideale in cui studiare, nel vivo delle realizzazioni concrete, un aspetto della storia del Ventennio sovente sminuito oltre che, ovviamente, un polo naturale di attrazione per i cultori dell’architettura razionalista. Eppure, ed è qui il momento di muovere un appunto, la scelta è stata quella di promuovere l’immagine della città solo nella seconda prospettiva e, per di più, compiendo un’operazione di marketing edulcorante, ovvero di “censura dolce” che ricorda le analoghe (e ancor più discutibili) operazioni di “depotenziamento” del lascito monumentale e urbanistico del Regime quali, per esempio, quelle condotte a Bolzano sul bassorilievo di Mussolini e sul Monumento alla Vittoria.
Tresigallo, infatti, è proposta all’aspirante visitatore, un po’ enigmaticamente, come la “Città metafisica” (un luogo «sospeso tra sogno e realtà», un percorso lungo il quale «il cromatismo degli edifici e la geometria delle forme producono un senso di spaesamento» per citare le descrizioni, a metà tra il poetico e il filosofico, che abbondano sui siti dedicati), e questo in virtù della somiglianza tra alcuni scorci del paesaggio tresigallese e certi astratti (e “desertici”) scenari urbani raffigurati nelle tele di Giorgio De Chirico. Si tratta, va ammesso, di un accostamento non del tutto arbitrario, se è vero che un rimando alla pittura di De Chirico si trova anche in Schivelbusch, laddove l’autore, proponendo per le fondazioni littorie l’etichetta di “anticittà”, identifica in esse, più che una sintesi di “urbano” e “rurale”, la «rappresentazione tridimensionale degli ideali fascisti di organizzazione, controllo e assenza di caos urbano», correlata a un’idea di città antitetica a quella, frenetica e alienante, della metropoli moderna e contrassegnata, invece, da dimensioni modeste, in cui si enfatizza, al limite, la sola mole «[de]gli edifici pubblici, soprattutto i palazzi comunali del centro, con le loro torri imponenti». Se tutto questo è vero, ciò però non toglie il dubbio che il maquillage “metafisico” di Tresigallo presenti le caratteristiche di una censura, “dolce” fin che si vuole, ma pur sempre tale, della matrice fascista della città rossoniana. Segno dei tempi, si dirà; precauzione necessaria (come i depotenziamenti bolzanini) per disinnescare le ben più pericolose pulsioni iconoclaste che, oggi più di ieri, si agitano nel sottobosco ideologico dell’antifascismo permanente. Tutto corretto e tutto, almeno in parte, plausibile. Resta però il fatto che Tresigallo meriterebbe, per rispetto della sua stessa storia, una definizione meno neutra, sebbene forse più compromettente, di quella, rassicurante ma astratta, di “Città metafisica”.
Corrado Soldato
2 comments
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Complimenti a Corrado Soldato per questo articolo molto istruttivo.La grande personalità e umanità di di Rossoni viene descritta molto bene anche nel bellissimo libro, sempre di Pennacchi,dal titolo “Canale Mussolini”