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The Walking Dead, l’Odissea dalla fine del mondo

by Roberto Johnny Bresso
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Roma, 15 feb – Ammetto che sto scrivendo questo articolo per fare un mea culpa. Da sempre sono stato un grande appassionato di storie che riguardassero il tema dell’apocalisse zombie. Ossia quello specifico filone cinematografico che si suole far nascere con il capolavoro di George A. Romero La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead), risalente al 1968. La forza di questo genere horror risiede soprattutto in due fattori. Nel fatto che i morti viventi possiamo essere noi stessi, intrappolati nell’alienante società capitalista che ci priva del nostro essere singolarità. E che, trascorso il primo periodo di assestamento, il vero nemico torni a rivelarsi l’essere umano, il nostro simile. Mentre i vaganti diventano quasi solamente un fastidioso contorno. Ecco che quindi, quando nel 2010 Frank Darabont ha deciso di portare sul piccolo schermo la straordinaria serie a fumetti The Walking Dead, creata da Robert Kirkman nel 2003, ero a dir poco entusiasta.

Dal fumetto alla serie tv

La serie tv segue a grandi linee la graphic novel da cui è tratta, se pur cambiando diversi eventi ed introducendo personaggi inediti. L’azione inizia quando Rick Grimes (interpretato da Andrew Lincoln), vice sceriffo di una cittadina della Georgia, si risveglia dal coma in ospedale, per scoprire che il mondo come lo conosciamo nel frattempo è andato in pezzi. E le strade sono invase da zombie bramanti carne umana. Inizierà così il suo peregrinare alla ricerca disperata della moglie Lori e del figlio Carl.

L’episodio pilota è a dir poco strepitoso. Perché riesce a tenere altissima la tensione su un argomento molto spesso usato e abusato in maniera grottesca. E così fa tutta la prima stagione, composta da sei episodi. Anche le successive stagioni si rivelano all’altezza, se pur con qualche lungaggine di troppo, fino all’introduzione, durante la sesta stagione (prima solamente evocato e infine mostrato) di uno dei villain più memorabili della storia. Vale a dire Negan, interpretato in maniera straordinaria da Jeffrey Dean Morgan. E se avete visto già solo qualche puntata, vi basti solamente pensare a Lucille, la mazza da baseball ricoperta di filo spinato…

E da allora, a mio avviso, iniziano i problemi che mi hanno gradualmente portato ad abbandonare la serie durante la nova stagione. Per ragioni economiche (vale a dire spremere sempre più la gallina dalle uova d’oro) i produttori hanno deciso di dilatare sempre più gli avvenimenti per soffermarsi su accadimenti secondari e personaggi di contorno. Inoltre gli episodi hanno cadenza settimanale, subiscono un lungo stop a metà stagione e ancora uno più lungo tra una stagione e l’altra. Ed il risultato è quello di uccidere il “momento” e di far perdere molto spesso il filo del racconto. La serie poi si concluderà dopo undici stagioni e 177 episodi nel 2022.

The Walking Dead: un viaggio nell’animo umano

Ma perché allora vi sto parlando di un mea culpa? Perché lo scorso dicembre la serie è stata inserita integralmente su Sky. E così, durante le vacanze natalizie, ho pensato bene di ripartire da capo vedendola ai miei ritmi. Senza dover attendere le uscite programmate come un tempo. Ed ecco allora che il mio giudizio è cambiato radicalmente: The Walking Dead è una moderna Odissea dalla fine del mondo, un viaggio fisico e psicologico nell’animo umano, che ci permette di concederci riflessioni su cosa saremmo disposti a fare per salvare noi stessi ed i nostri cari. E anche le puntate con meno azione, viste come un unicum, si rivelano tutte indispensabili, così come risulta essenziale anche il personaggio apparentemente più marginale. The Walking Dead ci spinge anche a riflettere sul come possa essere spesso avventato affrontare ogni questione con la forma mentis del “tifo da stadio”, perché tutti prima o poi finiamo con l’essere il cattivo nella storia di qualcun altro.

Anche la musica non è mai fine a se stessa, ma contribuisce ad alzare il livello di pathos. Mi limito a citare queste tre canzoni utilizzate in maniera magistrale: A Town Called Malice dei The Jam (per mostrare scene ordinarie di vita in un mondo straordinario), When the Wild Wind Blows degli Iron Maiden (per alzare il livello di adrenalina prima di una decisiva battaglia) e Cult of Personality dei Living Colour (nella puntata finale durante il conflitto decisivo). Naturalmente TWD ha dato il via ad una serie di spin-off che si stanno rivelando tutti validi ed in grado di portare avanti un universo mastodontico e geniale.

In conclusione, se non lo avete mai visto, se come me lo avevate abbandonato o se anche lo avevate già finito, vi consiglio caldamente di prenderlo in mano. Non ne rimarrete affatto delusi. Ps: per gli amanti del genere vi suggerisco anche la visione di 28 giorni dopo e del suo sequel 28 settimane dopo (in attesa di 28 anni dopo, previsto per giugno) e dell’originale film spagnolo del 2024 Apocalisse Z: L’inizio della fine.

Roberto Johnny Bresso

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