Milano, 2 lug – Era il 1997 ed un produttore italiano, Uberto Pasolini, insieme allo sceneggiatore Simon Beaufoy ed al regista Peter Cattaneo, ebbero la brillante idea di realizzare un piccolo film ambientato a Sheffield, Yorkshire, nel nord dell’Inghilterra. The Full Monty, girato in circa due mesi interamente nei luoghi nei quali era ambientato, con un budget di 3,5 milioni di dollari finirà per incassarne la bellezza di 258, venendo candidato a quattro premi Oscar (compreso quello a miglior film) e conquistando quello per la miglior colonna sonora.
The Full Monty, il successo di una pellicola nata (quasi) per caso
Ma come si spiega l’incredibile successo di una pellicola nata quasi per caso? Per coloro i quali non avessero visto il film la storia parla di sei disoccupati di Sheffield (città impoverita dopo la chiusura di molte acciaierie negli anni ’80 durante gli anni del governo della Thatcher) che si ritrovano a sbarcare il lunario tra sussidio, lavoretti e piccole truffe. In particolare il motore della storia è Gaz (uno straordinario Robert Carlyle reduce dal successo di Trainspotting), il quale, insieme all’amico Dave, decide di realizzare uno spogliarello integrale per sole donne allo scopo di guadagnare qualche sterlina che permetta loro di tirare avanti. Così nel folle progetto vengono reclutati altri quattro disperati ed il tutto finirà in gloria in una epica scena finale sulle note di You Can Leave Your Hat On di Joe Cocker, canzone già usata in un altro celebre spogliarello, vale a dire quello di Kim Basinger davanti a Mickey Rourke in 9 settimane e ½.
Il film, che nasce come commedia, in realtà si rivela molto più amaro di quanto sembri: dietro le molte scene divertenti che strappano più di una risata, si intravede tutta l’amarezza per un mondo che sta cambiando in peggio e per la condizione della working class che ormai non consente nemmeno più la possibilità di una vita dignitosa. In questo è magistrale la critica sociale alla politica, la quale, nella classica alternanza tra i due grandi partiti britannici, ha continuato a fregarsene dell’uomo comune, sempre più percepito come un fastidio nel grande ingranaggio della nazione.
Il ritorno
Sono passati ventisei anni e il mondo è cambiato ancora più velocemente (temiamo non in meglio…) e quasi c’eravamo dimenticati di questo piccolo gioiello. Invece Pasolini e Beaufoy hanno pensato che ci fossero ancora storie meritevoli di essere raccontate su questi sei personaggi usati come metafora del cittadino schiacciato tra problemi personali e l’opprimente mondo che lo circonda. Così ecco che The Full Monty torna con una serie composta da otto episodi. L’inizio è davvero potente: ci vengono mostrati gli anni trascorsi dal primo film, compresi tutti i primi ministri che si sono succeduti nel Regno Unito, e poi vediamo Gaz che tenta di salire su un pullman con un vecchio materasso. Capiamo così immediatamente che nulla è cambiato per la classe lavoratrice, anzi se possibile tutto sta andando ancora più a rotoli.
I nostri magnifici sei sono invecchiati e sono tutti alle prese con i loro eterni problemi, ai quali se ne sono aggiunti di nuovi. Come nel film è sempre il personaggio di Carlyle il motore di tutto: vive in un camper, ha una figlia che ha preso tutti i suoi pregi e difetti, mentre il primo figlio (bambino nel film) adesso è, ironia della sorte, un poliziotto. Gaz è l’eterno fanciullo che sogna sempre in grande, salvo poi prendere dalla vita solo bastonate che peraltro non lo abbattono mai del tutto. È il tifoso dello Sheffield United che gira con la maglia della squadra per la città in cerca del miracolo che lo faccia diventare ricco; eterno Peter Pan e moderno Don Chisciotte è un antieroe al quale ci si affeziona anche quando le sue azioni sono mosse anche solo dall’egoismo o dalla stupidità, perchè prima o poi trova anche l’idea geniale, come pure nel finale della serie che ovviamente non vi sveliamo.
Tra rabbia e risate
Si ride tanto negli otto episodi, ma è un riso mai sereno, perché oltre alla risata ci si commuove molto e ci si indigna pure parecchio verso un sistema che è palesemente ingiusto nei confronti dei più deboli ed esposti alle avversità dell’esistenza. C’è anche spazio per una critica all’esasperazione del politicamente corretto, quando i due proprietari della caffetteria ritrovo dei protagonisti (tra l’altro due omosessuali) sono costretti a cambiare il nome al locale quando una ragazzina li accusa di far riferimento al seno femminile. Particolarmente divertente quando si cerca di spiegare al più anziano del gruppo che tutto ciò derivi dal movimento Me Too, lasciandolo più che altro sconcertato. Il più grande pregio della serie infatti sono proprio i personaggi: così umani nella loro semplicità, così fragili eppure dotati di uno stoicismo che non può lasciare indifferenti. Ci si affeziona tanto a loro e, in un’epoca di sequel al cinema e in tv per lo più inutili, The Full Monty rappresenta una piacevole eccezione.
Concludiamo raccontando il mistero che si lega al titolo: The Full Monty (letteralmente “Il Completo Monty”, espressione che sta ad indicare il pacchetto completo) si riferiva nel film allo spogliarello integrale. L’espressione viene però usata in Gran Bretagna a partire dagli anni ’50, anche se l’origine non è chiara. Una teoria è che si possa riferire ad un celebre sarto, tale Sir Montague Burton, detto Monty, il che rende verosimile che i suoi clienti si riferissero al Completo Monty quando richiedevano i suoi servigi. Un’altra ipotesi invece rimanda al Generale Bernard Law Montgomery, anche lui soprannominato Monty, che amava indossare in ogni contesto tutte le sue medaglie, il Full Monty appunto. Montgomery era però anche un grande fan della Full English Breakfast, che pare chiamasse appunto con il titolo del futuro film. Tutte le spiegazioni sono affascinanti anche se impossibili da dimostrare, mentre per gli americani, che vanno sempre al sodo, l’espressione (mai usata prima dell’uscita della pellicola) dal 1997 sta a significare una sola cosa: il nudo integrale!
Roberto Johnny Bresso
1 commento
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