Da qualche tempo, la cultura filosofica italiana – e non solo – sembra preda di una sorta di Spinoza-mania. Solo nell’ultimo biennio sono usciti in lingua italiana volumi come: David Assael, Baruch Spinoza (2021); Antonio Pennisi, Che ne sarà dei corpi? Spinoza e i misteri della cognizione incarnata (2021); Steven Nadler, Spinoza sulla vita e sulla morte (2021); Rossella Fabbrichesi, Vita e potenza: Marco Aurelio, Spinoza, Nietzsche (2022); Emanuele Dattilo, La vita che vive (2022).
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di marzo 2023
In questo rinnovato interesse qualche influenza ce l’ha forse avuta l’esplosione del Covid, benché verosimilmente molte di queste ricerche siano state preparate prima dello scoppio della pandemia. È come se il confronto con una forma di vita acefala e onnipervasiva, come appunto un virus, abbia spronato più o meno consapevolmente il mondo della cultura a tornare a riflettere sulla physis, su una realtà meno antropocentrica.
Il ritorno di fiamma per Spinoza
Tra quelli citati, il volume più originale è senza dubbio quello di Pennisi, che peraltro si situa in una tradizione inaugurata già anni fa da Antonio Damasio con Alla ricerca di Spinoza e intesa a confrontare lo scomunicato di Amsterdam con le neuroscienze più avanzate, alla ricerca di un nuovo modo di pensare il rapporto corpo-mente, oltre l’impronta cartesiana che getta ancora oggi una pesante ipoteca sulle nostre categorie ontologiche e antropologiche. Non più menti razionali calate «dentro» a corpi altrimenti inerti, ma un’unica sostanza somatica e pensante al tempo stesso. Un pensiero incarnato, ma non nel senso che sia prima puro spirito e poi «entri» nella carne, bensì coscienza già da subito espressa nei corpi e attraverso i corpi.
Si avverte, insomma, il bisogno di una riflessione sulla vita, intesa non come valore, ma come evidenza primaria, come flusso inesausto che regge l’esistente e che sfugge alle dicotomie e alle razionalizzazioni umane. Se è davvero un effetto del Covid, non è decisamente tra i peggiori a cui abbiamo assistito. Spiace, purtroppo, che nessuna destra, anche tra virgolette, abbia trovato il tempo di maturare riflessioni analoghe, trovando anzi nella pandemia l’occasione per un generale revirement reazionario e paranoide. Eppure, di argomenti da far valere sul tema ce ne sarebbero. A partire da tutta una feconda tradizione culturale sovrumanista e rivoluzionario-conservatrice che, non di rado, con Spinoza ha interloquito in modo fecondo.
Strane consonanze
Già nel suo importante studio su Evola, Guénon, De Giorgio, lo studioso Piero Di Vona aveva creduto di poter individuare delle radici spinoziane alla base del pensiero di René Guénon (invero piuttosto controintuitive). Di Vona arrivava a inserire a margine di un testo non esattamente arcadico, come La disintegrazione del sistema di Franco Giorgio Freda, un corollario intitolato «Spinozismo di destra, spinozismo di sinistra». Quale sia lo spinozismo di sinistra – la cui lettura è stata di recente contestata da David Assael – è piuttosto noto: parliamo del filone che va da Toni Negri a Louis Althusser, Gilles Deleuze, Étienne Balibar. E lo spinozismo di destra, pur prendendo l’etichetta con le molle, quale sarebbe? Di Vona non esita a far rientrare sotto questa categoria lo stesso pensiero dell’Editore padovano: «Potremmo qualificare lo spinozismo di Freda come uno spinozismo di destra, perché riprende i temi mistici accentrati intorno alle idee dell’eternità e della libertà della mente», scrive lo studioso. Che arriva a proporre uno «scandaloso» confronto tra il creatore delle Edizioni di Ar e Toni Negri, ideologo di Autonomia operaia e poi delle «moltitudini» alterglobaliste. Scrive Di Vona: «Come per Freda, lo spinozismo di Negri è un…