«Signor Maggiore, stia tranquillo ché di qui non passeranno, farò io stesso il puntatore e con i miei soldati non molleremo». E così fu. Il sottotenente Sergio Barbadoro e i suoi uomini resistettero sino all’estremo sacrificio, sino al dono della propria vita per la patria. Quel sacro suolo fatto di confini fisici e di confini spirituali, lo spazio identitario di un popolo chiamato – presto o tardi – a difenderne storia e valori.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2023
Siamo in Sicilia e i fatti che stiamo per raccontarvi sono quelli dell’Operazione difesa di Palermo, in codice «Difesa Porto N», contro quella che è passata alla storia come operazione Husky, o se preferite «Horrified», come veniva chiamata nei messaggi del quartier generale degli Alleati. E come in effetti si è presentata alla popolazione della Trinacria, bombardata in lungo e in largo dal 9 maggio del ’43 sino allo sbarco avvenuto due mesi dopo, nel tentativo di sfiancarne la difesa, spianando la strada a quella che fu un’invasione in piena regola.
Sergio Barbadoro: un vero italiano
L’arrivo delle truppe era stato preparato nei minimi dettagli, compreso il famigerato piano Mincemeat, con cui si fece credere ai tedeschi che il vero obiettivo fosse la Grecia e un altro sito nel Mediterraneo (la Sardegna), mentre la Sicilia fungeva da specchietto per le allodole. Ciò portò a un indebolimento nelle difese dell’isola, ma anche a straordinari atti di eroismo da parte del Regio esercito, mal disposto a coniugare il verbo «arrendersi».
In questa storia entra di diritto il sottotenente di artiglieria Sergio Barbadoro. Romano ma nato in Toscana il 30 settembre del 1920, precisamente a Sesto Fiorentino, dove la madre si trovava per assistere la sorella, Barbadoro cresce nel quartiere Monte Sacro della Capitale, con i genitori – Francesco, ex combattente ferito sul Carso, che si guadagna da vivere gestendo un negozio di valigie, e Pia, ex crocerossina – insieme ai fratelli Mario e Renzo. La Grande guerra è alle spalle e la vita di Sergio scorre tra gli impegni di studio, il supporto ai genitori nel lavoro e lo sport, in particolare la lotta greco-romana.
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Quando l’Italia entra in guerra, lui potrebbe godere del rinvio per motivi di studio – frequenta infatti la facoltà di Economia e commercio alla Sapienza – ma sente forte il bisogno di non sottrarsi ai suoi doveri di giovane italiano e, come tanti altri iscritti al Guf (Gruppi universitari fascisti), inoltra la richiesta di arruolamento. La chiamata non tarda ad arrivare: è il 17 marzo 1941, per il 27° Reggimento artiglieria pesante semovente, di stanza a Milano. Le sue ottime qualità non passano inosservate e, da soldato semplice, verrà nominato caporale e poi sergente, il 17 giugno 1941.
Gira molto il giovane Sergio: Bari, Durazzo (parentesi di sette mesi particolarmente intensa e pericolosa) e Firenze, dove ottiene l’ammissione al corso Auc (Allievi ufficiali di complemento) di Nocera Inferiore. Viene nominato sottotenente di artiglieria specialità divisione fanteria, e assegnato al 13° Reggimento artiglieria da campagna «Granatieri di Sardegna» di Roma, dove presta il suo primo servizio in veste di ufficiale. Oggi, nella caserma, si trova una lapide a sua perenne memoria.
Morte all’invasore
I diari storici ci riportano che il 4 aprile del 1943 Barbadoro raggiunge il fronte in Sicilia, presso il deposito del 25° Reggimento artiglieria divisione fanteria «Assietta», dove si compirà il suo destino. Il 10 luglio, dopo due mesi di infami bombardamenti da parte di chi si autoproclamava «liberatore», ma che di fatto stava massacrando proprio i civili, le truppe angloamericane sbarcano in Sicilia. Si tratta della 7° Armata a stelle e strisce del generale Patton e l’8° britannica del maresciallo Montgomery: 6 corazzate, 2 portaerei, 15 incrociatori, 128 cacciatorpedinieri e centinaia di altre unità minori. Come riporta il bollettino di guerra n. 1141 di sabato 10 luglio 1943, l’attacco anfibio in Sicilia fu ancora più massiccio di quello che avrebbe avuto luogo undici mesi dopo in Normandia.
Dopo 12 giorni di battaglie, alle prime luci dell’alba del 22 luglio gli Alleati avanzavano verso il capoluogo siciliano. La manovra d’attacco si svilupperà su tre differenti direttrici, immaginandola e descrivendola come una passeggiata, tanto da darsi appuntamento per il ricongiungimento a mezzogiorno dello stesso 22 luglio in città. Ma non fecero i conti con la forza eroica di pochi uomini con tanto fuoco in corpo; in particolare, nella difesa di Palermo Sergio Barbadoro ha un posto unico e indimenticabile.
«Difesa Porto N» viene assegnata al generale Giuseppe Molinero, il quale predispone un’accurata ricognizione informativa sui punti stabiliti a protezione del capoluogo, inviando il maggiore Francesco Morelli. Nel suo rapporto egli scriverà: «Raggiunta la linea predetta nella zona di Portella della Paglia trovai un pezzo anticarro sistemato a sbarramento delle provenienze da S. Giuseppe Jato. Detto pezzo era comandato dal sottotenente Barbadoro Sergio del I gruppo del 25° artiglieria “Assietta”». Il luogo si presenta tra due alte montagne, una gola da cui si è costretti a passare in fila indiana, tanto piccolo è il sentiero, strategico – diremmo – per chi difende la posizione anche con un solo pezzo, il 100-17, autocannone realizzato dalle officine libiche del Regio esercito e adatto al traino in montagna. Il sole è già alto, Barbadoro e i suoi uomini non perdono mai di vista la curva da cui presto o tardi inizieranno a comparire i primi mezzi americani. Ed ecco che davanti a loro si presenta un carro pattuglia con sei soldati a bordo. Barbadoro ordina ai suoi uomini «Fuoco!», e saltano in aria. La passeggiata, come l’avevano definita gli Alleati, è già finita: inizia lo scontro che, nonostante l’evidente disparità di uomini e mezzi, durerà nove ore. Uomini decisi, li hanno definiti nei diari di guerra angloamericani, i soldati italiani cresciuti a pane e patria e che mai, anche davanti aduna lotta impari, avrebbero…
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