Roma, 27 lug Nei giorni scorsi è apparsa la notizia dei danni che il comune di Nemi, cittadina dei Castelli che fu sede del santuario di Diana Nemorense, del Rex Nemorensis che ispirò il celeberrimo The Golden Bough (Il Ramo d’Oro) di James Frazer, ha richiesto alla Germania per il rogo che, nel 1944, distrusse il Museo delle Navi romane. La Giunta comunale di Nemi ha infatti votato una delibera su proposta del primo cittadino, Alberto Bertucci, propedeutica a chiedere i danni alla Repubblica federale tedesca per la distruzione delle due famose navi romane dell’imperatore Caligola. Furono ritrovate nel secolo scorso, tra il 1928 e il 1932, e poi “dolosamente e intenzionalmente bruciate” la notte del 31 maggio 1944 dal 163° Gruppo Antiaereo Motorizzato tedesco che occupava la zona ed era in ritirata. E adesso, per il sindaco Bertucci, la Germania deve pagare per i danni “morali e materiali subiti dalla collettività di Nemi a causa dell’irreparabile danno causato a un bene archeologico di inestimabile valore”.
I sedicenti partigiani
Così quanto sostenuto dal comune e da fonti di scientificità indiscutibile come Wikipedia. Ma quale è la verità storica? L’incendio del Museo delle navi di Caligola avvenne come si dice solitamente il 31 maggio 1944 ma il 3 giugno. A lungo attribuito a soldati tedeschi ubriachi, in realtà fu un atto criminale di sedicenti partigiani locali che vollero bruciare le “navi del Duce” per asportare il piombo di cui erano rivestite.
Scrive a riguardo Pietro Cappellari: Una Commissione d’inchiesta, nel dopoguerra, avanzò l’ipotesi che l’incendio potesse essere stato appiccato “verosimilmente” dagli Artiglieri germanici della Flak, che avevano un loro pezzo a circa 150 metri dal museo. Numerose furono le critiche mosse all’operato di questa Commissione che, comunque, non riuscì a provare nulla. È vero, invece, che da mesi, bivaccavano all’interno del museo numerosi civili e che tutt’intorno, in quei giorni, piovevano granate degli Alleati. Ma ciò fu considerato di scarsa importanza. Il “male assoluto” erano i Tedeschi e, quindi, è a loro che si doveva attribuire la “deliberata volontà” di distruggere le navi di Nemi. Anche se non vi era nessuna prova e che indizi ben più pesanti gravavano sui civili che erano accampati nel museo e, soprattutto, sugli stessi Angloamericani, che avanzavano cannoneggiando e bombardando a tappeto tutta la zona del Lago di Nemi: “Le fatiche, durate 500 anni e finalmente giunte al successo, furono bruscamente vanificate nella notte del 30 Maggio del 1944, quando, durante uno degli ultimi cannoneggiamenti americani, il museo prese misteriosamente fuoco. Non fu colpito da una bomba: s’incendiò. La Commissione incaricata in seguito di appurare i fatti arrivò alla conclusione che l’incendio era stato doloso, e che l’unica ipotesi possibile fosse che i Tedeschi in ritirata avessero appiccato il fuoco prima di evacuare la zona. Oggi ci sono dei dubbi su questa ipotesi: non si capisce perché l’avrebbero fatto. C’è chi preferisce dar credito all’idea che una favilla sia sfuggita ai fuochi accesi dagli sfollati che erano stati ricoverati proprio nel museo”.1
“Abbruciamo le navi di Mussolini”
Tra i primi a contestare l’attribuzione ai Tedeschi del crimine vi fu nel 1947 il settimanale politico illustrato Brancaleone, giornale diretto dal monarchico Attilio Crepas (Segretario dell’Alleanza Tricolore Italiana, vicina alla DC), che si interessò dell’incendio del museo archeologico con un articolo dall’emblematico titolo Lo scandalo delle Navi di Nemi. Anche se si vuole che alcuni manigoldi sedicenti partigiani locali abbiamo di persona partecipato a questa infamia; e unica attenuante a loro favore è che certo non sapevano il valore di quanto distruggevano. Bisogna dire che una propaganda ottusa e cretina, confermata del resto da campagne giornalistiche postume, mentre sminuiva l’enorme valore delle navi di Nemi e dell’attiguo museo, ne faceva presso a poco un emblema, addirittura un’insegna, del Regime fascista e di Mussolini. Talché qualcuno dei distruggitori avrebbe gridato: «Abbruciamo le navi di Mussolini», attribuendo quei relitti gloriosi al tempo del Duce, anziché a quello di Caligola e di Tiberio.2
In una ricerca inedita compiuta proprio per il presente volume, il prof. Cappellari scrive che la polemica del Brancaleone nasceva dalla consultazione di documenti che provavano in maniera inequivocabile:
1) “Le truppe germaniche hanno sempre portato il più assoluto rispetto al Museo imperiale delle Navi di Nemi, e alle N avi di Nemi stesse. Abbiamo visto noi stessi la lettera del Capo del Servizio tedesco per la protezione degli oggetti d’arte, con la quale si danno le opportune disposizioni perché il museo e le navi romane di Caligola e di Tiberio, che la lettera stessa qualifica ‘uniche al mondo’, siano in ogni modo salvaguardate e tutta la zona considerata come non militarizzabile”;
2) “Tutte queste disposizioni furono rispettate come attestano: gli stessi rapporti del Prof. Salvatore Aurigemma, che del museo e delle navi era l’unico responsabile, e il Prof. Bartolomeo Nogara, Direttore dei Musei vaticani”;
3) “I cittadini di Nemi, di Genzano e dei dintorni che per la paura dei massacranti bombardamenti americani e inglesi si rifugiarono nel museo, lo fecero appunto perché – essendo il sito smilitarizzato – pensavano poter salvare ivi la propria vita e quella delle proprie creature. Si trattava di una massa di gente calcolabile a centinaia di unità che viveva in dolorosa promiscuità, uomini, donne, bambini ammucchiati, e che cercava di trarre mezzo d’alimentazione anche dagli orti e dai terreni di pertinenza al museo. Fu questo, secondo voci e denuncia di dipendenti dell’Aurigemma, ad invitare il Comando tedesco ad estromettere i rifugiati, segnalando che la loro permanenza avrebbe irreparabilmente compromesso l’integrità di un patrimonio archeologico di inestimabile valore; mentre comprometteva soltanto l’approvvigionamento alimentare degli impiegati del museo?”.
I reparti SS “fantasma”
Il prof. Aurigemma, con una dichiarazione, smentendo quanto aveva detto il sindaco comunista di Genzano, sostenne di essersi opposto alla cacciata manu militari dei “tremila rifugiati”, cercando di aiutarli in tutti i modi. Per sfollare intervennero addirittura “speciali reparti di SS”, che scortarono la colonna di disperati sugli autocarri e, poi, su “vagoni piombati”, fino all’ultima tappa di un doloroso trasferimento: Spoleto. Città nella quale vennero abbandonati. Ovviamente si tratta di dichiarazioni fatte a posteriori per sminuire le proprie responsabilità, visto che proprio la soprintendenza aveva chiesto l’intervento delle autorità tedesche per proteggere il museo; ovvio che nel dopoguerra Aurigemma, soprintendente del Latium dal 1942, grande archeologo e compromesso politicamente con il Regime, cercasse di rifarsi una verginità politica agli occhi della nuova classe dirigente, anche inventando di sana pianta speciali reparti di SS che nel Lazio all’epoca semplicemente non esistevano: in proposito si veda sul sito del Deutsches Historisches Institut il saggio di C. Gentile, Itinerari di guerra: la presenza di truppe tedesche nel Lazio occupato che elenca tutti i reparti tedeschi presenti nel Lazio nel 1943- 44 e la loro dislocazione nei vari periodi: si potrà constatare come di simili reparti non ci fosse nemmeno l’ombra.
L’evacuazione forzata degli sfollati (richiesta, ribadiamo, dalla soprintendenza) aveva il ben preciso scopo di proteggere il contenuto del museo dall’accensione di fuochi da parte degli sfollati e da eventuali atti di vandalismo: difficile immaginare perché poi i tedeschi avrebbero dovuto abbandonarsi ad atti di distruzione dopo essersi adoperati per quasi un anno per proteggere le navi di Nemi. Secondo quanto appurato dal Brancaleone, il museo – ben prima della sua distruzione – venne fatto oggetto di spoliazioni e ruberie varie da parte di “ladruncoli” italiani, con complicità diffuse, non certamente dai germanici: non esiste una testimonianza, si dice, una sola, che possa imputare ai tedeschi la scellerata rapina del museo. Infine, il drammatico incendio che cancellò tutto. Per sempre.
La data sbagliata
Va poi ripetuto che il rogo non avvenne il 31 maggio, ma probabilmente il 3 giugno, quando non c’erano più tedeschi a Nemi. A riguardo l’architetto Giuliano Di Benedetti, dimostrando che le navi erano ancora intatte dopo la ritirata tedesca, scrive:
L’incendio non può essere stato appiccato da chicchessia il 31 maggio, come tutti abbiamo sempre creduto (…), ma soltanto dopo l’ultimo bombardamento del lago avvenuto il due giugno. Solo questa data, cioé il giorno 3 giugno, quando i tedeschi ormai sono lonteni e le bombe non cadono più, perciò in totale sicurezza, un gruppo ben organizzato di partigiani locali o sedicenti tali, già abituato a compiere razzie nelle campagne del circondario, deve essersi recato nella valle ormai libera da nemici e bombe, con le navi ancora integre al loro posto (…) I motivi per distruggere il più importante reperto archeologico navale del mondo quei partigiani credevano di averli veramente e ora volevano metterli in pratica (…) Cacciati via i custodi, questa volta sì e con serie minacce, alla luce del sole e con tutto il tempo necessario a disposizione… si stacca e si porta via il piombo del rivestimento delle navi.3
La pavimentazione trafugata
Bruciando poi il resto e causando una perdita irreparabile dal punto di vista archeologico, che una propaganda bugiarda e che dura ancora attribuirà ai tedeschi, senza interrogarsi sul perché mancasse il piombo fuso dei rivestimenti. A riprova di ciò sta il fatto che una parte intatta della pavimentazione del ponte di una delle navi – realizzata in opus sectile ovvero un mosaico composto da marmi colorati: porfido rosso del Gebel Dukhan in Egitto (sappiamo da Plinio che proprio Caligola fu il primo imperatore romano a riaprirne le cave) e sepentino verde delle cave del Tenaros nel Peloponneso, un quadrato di 1,50 per 1,50, senza alcuna traccia di incendio e neppure di semplici bruciature – sia stata recuperata dai Carabinieri del Nucleo Beni Culturali e Ambientali, a New York nel 2017, dove era stata portata come souvenir da un soldato americano, asportata e rubata evidentemente prima del rogo che distrusse tutto carbonizzando le navi (le tarsie di porfido e serpentino sarebbero state calcinate dal calore e distrutte come avvenuto con le altre pavimentazioni!), che quindi non può che essere successivo alla ritirata tedesca ed all’arrivo della 5a Armata il 1 giugno.4
Gli statunitensi lasciarono Nemi per proseguire per Roma la sera del due, lo stesso giorno in cui con ogni probabilità venne asportato il mosaico. Ovviamente il fatto che sia stato recuperato il pavimento e le circostanze nelle quali venne asportato è passato del tutto inosservato alla stampa mainstream, che ancora oggi continua a diffondere fake news sull’incendio appiccato dai tedeschi cattivi. E invece, come ormai provato al di là di ogni ragionevole dubbio, fu appiccato da sbandati locali, pomposamente ammantatisi del titolo di “partigiani”. Cosa che, appunto, non furono mai.
Pierluigi Romeo di Colloredo Mels
1 P. Cappellari, Lo sbarco di Nettunia e la battaglia per Roma. 22 Gennaio – 4 Giugno 1944, Herald Editore, Roma 2010, pag. 397.
2 Articolo seganaltoci dall’amico prof. Pietro Cappellari, che qui ringraziamo.
3 G. Di Benedetti, Le tre navi antiche del lago di Nemi, Roma 2016, pp. 361 segg.
4F. Ragno, “Nemi: ritrovati negli Stati Uniti parte dei mosaici delle navi di Caligola. I reperti saranno restituiti al Museo delle Navi di Nemi. Il sindaco Alberto Bertucci ringrazia le autorità americane e italiane, guidate dal Capitano Fabrizio Parrulli e al Ministro Franceschini”, Castelli romani today, 24 ottobre 2017.
3 comments
Bellissimo articolo, complimenti: altra luce si aggiunge alle tenebre della menzogna.
[…] di trattativa per esplorazione sottomarina dall’equipe del prof. Rosenfranz) del lago di Nemi bruciate dai partigiani. Quindi dopo il giudizio del Soprintendente a voi ogni […]
[…] di trattativa per esplorazione sottomarina dall’equipe del prof. Rosenfranz) del lago di Nemi bruciate dai partigiani. Quindi dopo il giudizio del Soprintendente a voi ogni […]