Roma, 20 ott – Ha fatto il giro del mondo, rilanciata con estasi messianica da giornali, stampa ed influencer di vario genere, la statua inaugurata pochi giorni fa davanti alla Corte Suprema di New York. Tutti a sbrodolarsi sulle foto del “capolavoro” politically correct dell’artista italo-argentino Luciano Garbati, che rappresenta nientemeno che il mito di Perseo e la Medusa. Ma attenzione, non come siamo abituati ad ammirarlo nella splendida forma che Benvenuto Cellini ha eternato nella Loggia dei Lanzi a Firenze, bensì ribaltandone la forma, e quindi il significato. Infatti, il figlio di Zeus stavolta è decapitato: una faccia mesta, contrita, stretta nelle grinfie di una Medusa vittoriosa che nell’altro mano brandisce la spada. Un’evocazione terribile, eppure calzante con i tempi che corrono. La statua è stata realizzata nel lontano 2008, ed era già conosciuta solo dagli appassionati di arte contemporanea. Ma è solo oggi che l’opera è stata esposta di fronte alla Corte newyorchese, è solo un caso? No, perché è proprio lì che il produttore cinematografico Harvey Weinstein è stato condannato a 23 anni di carcere per abusi sessuali. Proprio dove il movimento #MeToo si è consacrato alle cronache di tutto il mondo.
Ribaltare il mito
Ora, sorgono spontaneamente delle domande. Perché ribaltare il mito? Oppure, noi non siamo la società perfettamente secolarizzata, libera e democratica che non ha bisogno di simboli o ideali per identificarsi? È chiaro che i simboli sono ancora ben lungi dal non avere un peso, fatto sta che l’uso che se ne fa, anche se ribaltato nella forma, non è astrazione ma vera e propria sostituzione di idoli. Chi sottovaluta la portata di opere come queste sbaglia. E se fosse un caso isolato, potremmo anche bollarlo come trovata pseudo creativa fine a sé stessa. Ma di casi isolati iniziano ad essercene molti, possono essere messi in fila e contati, soprattutto legati alle statue e ai simboli dell’identità europea, colpevole senza appello di imperialismo, patriarcato, violenza e sopraffazione contro tutte le minoranze che esistono, sono esistite o mai esisteranno. Attenzione, non si tratta di borghese e muffa difesa dei valori e simboli dell’Occidente, si tratta di capire come il simbolo e il mito siano ancora una potenza attiva nel sentimento e nella psiche umana. Si tratta di avere chiaro qual è il nostro posto in quest’epoca in cui il rovesciamento dei valori si sta compiendo contro di noi, contro il nostro saper stare al mondo, contro la nostra visione dell’esistenza, che non è semplice ideologia bensì biologia.
“Dalla bocca esce la parola, il segno, il simbolo.
Se è segno, la parola non significa nulla.
Se invece è simbolo, significa tutto.”
Cambiare le parole, cambiare il mondo
È Carl Gustav Jung che nel suo Libro Rosso ci cala nell’importanza della parola, del segno e del simbolo, le quali non sono altro che tre realtà distinte di cui facciamo quotidianamente esperienza (anche se raramente ce ne accorgiamo) e su di essi ci soffermiamo accuratamente a riflettere. Cambiare le parole, quindi, cambiare i simboli, significa di fatto agire inconsciamente sul modo di pensare. Cambiare il logos significa cambiare la realtà e il mondo. Questo è un dato basale, fattivo, non astrazione ideale. Il linguaggio e la parola, il simbolo che ne deriva (anche una lettera è un simbolo), sono facoltà primarie di ogni essere umano. Un parlare, quello umano, che secondo Oswald Spengler nasce dalla difficoltà di farsi capire, di imporre con chiarezza ad altri la propria volontà, e proprio da questa difficoltà “deriva la tecnica della grammatica, la tecnica della formazione di frasi e di periodi, dell’esatto comandare, domandare, rispondere, della formazione di classi di parole sulla base delle intenzioni e degli scopi pratici, non teorici”. Chi pensa che il mito, che è sostanzialmente narrazione, sia un essere inamovibile e non mutevole sbaglia. La tradizione stessa, che deriva dal latino tradĕre (trasmettere, consegnare), suggerisce un mutamento continuo di simboli e significati per la bocca di chi narra e scrive. Riscrivere i miti attraverso il cambiamento dei simboli significa mutarne sostanzialmente il significato e, generazione dopo generazione, il mito sarà definitivamente altro rispetto a prima. E il mito, checché ne dicano i tecnici, resta la sostanza basale sul quale modelliamo il nostro stare al mondo, la nostra visione sulla vita e sulla morte. Cristianesimo docet.
I miti verranno rimodellati in chiave globalista, non cancellati
Oggi una statua a New York, domani una rimozione di Colombo, dopodomani un David coperto per il pudore islamico. Ieri le riletture dell’Eneide e Virgilio, l’altro ieri le interpretazioni pro immigrazione dell’Antigone, poi una serie Netflix con Giovanna D’Arco e Achille neri come il carbone. Poi le teorie gender insegnate all’asilo, assimiliate dai bambini attraverso i cartoni animati Disney. Una cattedrale brucia, un neurone muore. Dal canto nostro, la semicultura di docenti, studiosi e professori sta facendo appassire i nostri miti sotto un arido nozionismo buono solo per istruire consumatori, mascherato da un velo ideologico per dargli una patina di mondana attualità. “Mai spiegazioni del mondo furono così miserevoli, poiché i pesi e le misure sono falsi, i punti di riferimento tutti discutibili, per non parlare poi dell’adozione di certi termini, stiamo entrando nel caos delle idee – profetizzava Caraco nel suo apocalittico Breviario del caos – e vi siamo condotti dalla prostituzione delle parole”. Probabilmente, nel giro di una manciata di generazioni i miti così come si conoscono non saranno cancellati e nemmeno dimenticati. Chi ci fa guerra (direttamente o indirettamente) non si priverebbe mai di un’arma così potente. Saranno rimodellati per sostenere la narrazione globalista, progressista e tutta quella struttura economica fondamentalmente disumana. Perché allora ribaltare Perseo? Chi crede all’appropriazione fatta dal #MeToo e dai femministi sui generis, in quanto simbolo della vendetta della donna sul patriarcato è un credulone, un utile idiota che si presta ad una lettura facile e superficiale di questo vero e proprio anti-mito. C’è di più, molto di più. È una questione di pesi e misure.
Peccare di superbia
Alzare una statua alla Medusa non vuol dire celebrare il femminile, ma significa adorare quella che i greci definivano hybris, la dismisura, la tracotanza destinata a ribaltare il “grande altare della giustizia”. È quella tracotanza incarnata dalla superbia di chi vuole tutto, a tutti i costi, senza considerare i limiti naturali del proprio agire. È quella metafisica dell’illimitato descritta da Dominique Venner, quel mondo liquido definito da Zygmunt Bauman, insomma la dismisura che è diventata cifra e ragion d’essere dell’Era moderna, su cui puntualmente si scatena la forza letale di nemesis (vedi per esempio una pandemia globale), che della tracotanza è mortifera conseguenza. Anche nei miti biblici la tracotanza scatena sempre una punizione divina: dalla distruzione della Torre di Babele al Diluvio universale oppure alla tragica fine delle città di Sodoma e Gomorra, ciò che ci insegnano molte, se non tutte le tradizioni è che l’uomo non dovrebbe mai insuperbire oltre misura. E se proprio siete degli atei incalliti e scettici sul mito, c’è sempre la Storia a rammentarci la fine dei superbi: Tarquinio e gli etruschi alle porte di Roma, Serse e i Persiani sul campo di Platea, i turchi a Lepanto o alle porte di Vienna, gli americani in Vietnam. Ma evidentemente, oggi, la storia insegna solo quando a scontarla sono i perdenti dell’ultima guerra. La globalizzazione, è l’istituzione a modello universale della hybris e fu il poeta Thomas Stearns Eliot (amico di Ezra Pound) a profetizzarne il compimento. Nel suo poema Terra desolata, del 1922, si descrivono le odierne megalopoli, i colossi di acciaio e di cemento in cui è confinata la popolazione, che sempre più lontana dalla Natura selvatica va incontro a quella “Morte per acqua” con cui Eliot descrive la morte del mercante fenicio Phlebas, inghiottito dai gorghi del mare perché spintosi troppo oltre, perché vissuto solo per rispettare la legge della perdita e del profitto, cioè la legge del Capitale, per cui tutto è commerciabile (compresa la vita). Ed è proprio il tema della morte per acqua a ricollegarsi alla Medusa, alla nostra civiltà in cui si affoga nella liquidità dei flussi finanziari. Una civiltà sconfinata e smisurata, privata di ogni gerarchia e di ogni forma.
La Medusa come simbolo del globalismo
Secondo Esiodo, Medusa è una figlia di Forco: divinità primordiale della mitologia greca che rappresentava le insidie nascoste del mare. Un vero e proprio mostro marino, figlio a sua volta di Ponto e Gea, che diede vita alla schiatta delle gorgoni (curiosa la vicinanza di parole tra il proverbiale gorgo, il mulinello marino, e le gorgoni) a al drago serpente Ladone. Una figlia del mare, quindi, e di quel principio liquido che viene descritto molto bene da Carl Schmitt nel suo Terra e mare, dove si contrappone il “Nomos della terra”, luogo della stabilità e dei confini netti, con quello del Mare dove non esistono “né recinzioni né confini, né luoghi consacrati né localizzazione sacrale, né diritto, né proprietà”.
Non sorprende quindi che la Medusa possa diventare un simbolo di questo globalismo errante, che con l’ingannevole illusione del movimento ci pietrifica, ci inaridisce e ci rende schiavi. Ma c’è ancora qualcosa di più, un modo tutto particolare che ha questo sistema di farsi beffe del mondo alla luce del sole, senza cospirazioni o complotti extra-terrestri. Infatti, secondo altri miti Medusa è il frutto abominevole di uno stupro. Nelle Metamorfosi di Ovidio, il poeta racconta che Medusa era in origine una ragazza splendida, la cui bellezza aveva attirato l’attenzione del dio del mare Poseidone. All’epoca non c’erano problemi riguardanti il consenso, così il Dio del mare violentò Medusa in un tempio di Atena. Fu proprio quest’ultima che, non potendo sopportare la profanazione del suo luogo sacro (altre tradizioni dicono perché la Dea non sopportasse la sua bellezza), trasformò la fanciulla in un mostro, capace di pietrificare chiunque avesse incrociato il suo sguardo. Anche in questa versione, che forse ci mostra una versione più compassionevole per la gorgone, vediamo come Medusa sia una figlia della hybris, della tracotanza che fiorisce e da cui si raccoglie rovina. Se proprio doveva essere una statua contro gli abusi sessuali, la gorgone avrebbe dovuto stringere una testa di Poseidone (per assurdo), o al massimo quella di Harvey Weinstein, ben lungi dall’essere un nostro modello di vita. Sicuramente non quella dell’eroe Perseo, l’unica vera vittima di questo terribile ribaltamento di significati.
Molti conoscono il racconto di Perseo e la Medusa, pochi tutta la storia dell’eroe. Preso da solo, l’episodio potrebbe rappresentare un uomo a caccia di gloria che uccide uno dei tanti mostri che un tempo calcavano la Terra insieme a Uomini e Dèi. Eppure questa è la più grossa ingiustizia che la statua compie in misura alla sua dismisura (perdonate il gioco di parole). Perché Perseo non è un vanaglorioso in cerca di fortuna ma un uomo in lotta con il tiranno Polidette, signore di Serifo. Un tiranno ricco e potente che voleva a tutti i costi avere la madre di Perseo, Danae. Così tese al figlio una trappola con il proposito di sbarazzarsene: mise in scena un finto matrimonio e radunati gli amici confinanti e lo stesso Perseo, annunciò i suoi propositi di nozze. Poi chiese a tutti un regalo: da ognuno dei presenti avrebbe gradito un cavallo. Perseo, mortificato perché non possedeva nulla di simile da donargli, affermò che se il re non avesse più insidiato sua madre Danae, gli avrebbe procurato qualunque cosa avesse chiesto. Polidette fu molto lieto in cuor suo pensando che questo fosse il mezzo per liberarsi di lui. Espresse pertanto l’estroso desiderio di avere come dono di nozze la testa di Medusa, una delle tre Gorgoni.
Il resto lo conosciamo: Perseo riesce nell’impresa, libera Andromeda (sì, libera una donna da morte certa), poi torna a Serifo con la testa della gorgone. Ed è qui che in realtà si compie il vero atto di giustizia che fa di Perseo l’eroe incarnato della misura: tornato all’Isola (un po’ come Ulisse) scopre che non solo il matrimonio di Polidette era una finzione, ma quest’ultimo non aveva smesso di tormentare la madre, costringendola a nascondersi come una fuggitiva. Montata la sua ira funesta volge la testa contro il tiranno e la sua corte di arricchiti pietrificandoli, ponendo fine all’ingiustizia della superbia e della tracotanza. Potremmo fermarci qui, ma dirò solamente che non solo Perseo non prende il posto del Tiranno morto, ma riconsegna agli Dèi i doni ricevuti per l’impresa e consegna ad Atena la testa del demone. Si narra che alla morte di Perseo, Atena per onorare la sua gloria lo trasformò in una costellazione, cui pose al fianco la sua amata Andromeda. Ancora oggi sono visibili nel cielo boreale.
Ritrovare il senso delle parole
Perché raccontare tutto questo? Perché come abbiamo detto sopra, la parola è tutto. E le voci fuori dal coro sono sempre più rare. In un mondo ideale quella statua non sarebbe mai stata alzata, in un mondo più coraggioso qualcuno gli andrebbe a dare fuoco, perché insulta non solo l’uomo e la donna, ma sputa sul senso stesso della giustizia ed idolatra quella tirannia dell’oro che usa la medusa come diletto. Un doppio insulto alle donne se vogliamo. Perché qui sta il segreto del mito: il nemico, seppur terribile come la medusa, è nulla in confronto a chi lo adopera per accrescere il suo ego ed inseguire i suoi desideri più sfrenati. Il nemico non è la medusa, sta dietro la medusa, è invisibile, spesso celato e adopera i nostri stessi miti contro di noi. Fu Gabriele D’Annunzio, nel suo Vergini delle rocce del 1895, a dire che un “ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica”. Sta a noi ritrovare il senso delle parole, dei simboli, della potenza del mito per fronteggiare la distruzione e il nulla. Ridare forma non vuol dire difendere le rovine, ma essere attivi, vivi, per costruire e trasmettere a chi verrà dopo. Se non saremo noi a trasmettere, saranno loro. Ed in un men che non si dica, la tradizione sarà contro di noi.
Libero Baluardo
4 comments
Non credo che ci sia tutto questo STUDIO …. e che soprattutto che quei quattro RINCO di DEM e BLM USA siano in grado di capire …..
Dev’ essere una MODA mettere statue che fanno CAGARE davanti ai
tribunali .
Nella mia città hanno messo un ENORME simil centauro , con due COGLIONI (non è una metafora …) da 50 cm x 20 . forse più
E l’ enorme UALLERONE è proprio in vista uscendo dal tribunale …..
Ho chiesto alla dott.ssa , Cancelliere dello stesso, se non trovavano una sorta d’ insulto all’ Istituzione quell’ osceno spettacolo , mi ha risposto
che lo scultore (sich!) l’ aveva DONATA per ABBELLIRE la piazza …..
quindi era inamovibile . Ma , secondo me , potrebbero girarla con COGLIONI non a vista …. girati vs strada .
La Tradizione non potrà mai essere ribaltata dai demoni perché anche così fosse i demoni restano demoni. Certo ce li “fumeremo” ancora per molto, ma adesso devono scendere in un campo sempre più aperto … Grazie comunque per il “rinfresco classico”!
Semplicemente esemplare.
Questa statua rende omaggio alla Dea Medusa. Non ci vedo nulla di male. Ricordo che è stata fatta nel 2008. Invece voi codardi del primato e finti fascisti di caccapound dovete spiegare a tutti come mai vi siete ritirati dalla vita politica distruggendo così il nazionalismo italiano, caro all’Impero Romano. E non dite la solita stronzata che alle precedenti europee avete preso pochi voti, visto che i fascisti non vanno a votare alle europee. VENDUTI AL VATICANO!