Roma, 05 feb – Non è certamente la prima volta che mi sentite inveire contro le nuove uscite sia in termini di serie tv che cinematografiche. E non sarà l’ultima. La penuria di idee, i remake di remake e i sequel dei prequel, il politicamente corretto e la dottrina woke, un carrozzone che, diciamoci la verità, ha nauseato. Non dico i giovanissimi (che non hanno un metro di paragone) ma almeno i più avvezzi al piccolo e grande schermo. Sopraffatta dalle serie che stomacano già alla seconda puntata, ho deciso di mettere in pausa le novità. E di ritornarmene verso i lidi sicuri del passato e quale migliore serie della prima in assoluto, Twin Peaks?
Una serie da riscoprire
Avendola visionata da adolescente, riscoprirla con gli occhi della maturità è stato davvero pazzesco. Primo, perché non ricordavo assolutamente nulla a parte il famoso cadavere di Laura Palmer e la conturbante Audrey Horne. Secondo perché il buon David Lynch (scomparso appena ho finito la terza serie di TP) riesce a farti sprofondare in un’atmosfera, in un mondo, da cui è poi difficile riemergere. Saranno le musiche oppiacee di Badalamenti, sarà quella natura malvagia quanto affascinante, la sapiente regia di Lynch, i suoi mostri, la sua grottesca ironia, i luoghi fisici e quello immaginari. Ebbene, quando si guarda una serie così, il resto è – quasi tutto – da buttare.
Non solo Twin Peaks…
La morte di Lynch – scomparso artisticamente già da decadi per colpa di quell’establishment che oggi tanto lo piange – mi ha poi spinto a rivisionare tutte le sue opere. A partire da Eraserhead, passando per Rebel at heart, Mullholland Drive, Fire walk with me, ma soprattutto The Elephant Man. Possiamo dirlo, il suo capolavoro, e il suo unico film “normale” assieme a The Straight story (l’alfa e omega della sua carriera); normale va inteso nel senso di reale, poiché tutta la filmografia del maestro si focalizza su due piani, quello dell’onirico/simbolico e quello del reale/concreto.
Duale come il suo approfondimento delle categorie bene e male, positivo e negativo, buono e malvagio, puro e corrotto, coraggioso e vigliacco. Come quando il chirurgo di The Elephant Man, interpretato da un giovane Antony Hopkins, interroga sua moglie per sapere se sia un uomo buono, “Am I a good man?”. The Elephant Man ruota la sua esegesi proprio sulla ricerca del buono e del bello. Nel caso del povero John Merrick, storpiato dalla natura, si tratta di una bellezza espressa dalla sua delicatezza. Dalla sua ammirazione per la cattedrale che osserva dalla finestra della stanza d’ospedale (e che ricostruirà a partire da stralci di cartone), da come riesce a decorare il suo piccolo ambiente, mantenendolo sacro nonostante gli attacchi esterni. La bellezza di John Merrick è quella che ci arriva attraverso il suo sguardo. Meraviglia interiore ed esteriorizzata per debellare la sua nemesi, espressa dall’umanità subumana, abbrutita dal lavoro ripetitivo e dai bagordi notturni.
Una critica alla società industriale
Ed ecco un’altra tematica che ritroviamo in tutte le opere di Lynch. Ossia la critica feroce alla società industriale, ai suoi rumori, alla sua sporcizia, all’azione appunto ripetitiva dell’uomo-macchina, insensibile alla bellezza e alla bontà. Ammaestrato, ingabbiato. C’è una scena in The Elephant Man che sembrerebbe avulsa alla narrazione ma che invece è assolutamente pertinente. Ovvero quella degli operai notturni sporchi di carbone, praticamente attaccati ai macchinari, scena speculare a quella in cui ritroviamo il signor Merrick in gabbia. L’uomo moderno diventa il vero mostro. La sua presenza infesta ogni pellicola di Lynch, così come infesta la vita delle grandi città ma anche dei piccoli centri alla Twin Peaks.
Non è un caso che Lynch, originario del Montana e trasferitosi da piccolo con la famiglia a Philadelphia, descriva la città della sua crescita come un inferno fatto di insicurezza, violenza, droga, degrado. E che abbia rappresentato, come egli stesso ha ripetuto in varie interviste, il fulcro della sua intera creazione artistica. Ed è la droga a farla da padrona in tutte le sue storie di morti violente, di crimine selvaggio. Sia nella piccola suburbia americana, così rosea e calma, almeno in apparenza, che nella barbarie dei grandi centri urbani.
Grazie maestro (non solo per Twin Peaks)
Disgustato da Hollywood (palesemente in Mullholland Drive, film che narra le disillusioni di una giovane aspirante attrice e la sua discesa verso un inesorabile baratro), Lynch gli volta definitivamente le spalle nel 2006. Anno di uscita del difficile Inland Empire, la sua pellicola più ostica e escatologica, proseguendo la sua strada con documentari e cortometraggi, nella libertà artistica che gli è sempre stata cara.
Lo ritroviamo nel 2017, come promesso (il criptico “ci rivedremo tra 25 anni” di Laura Palmer nella Black Lodge). Siamo nella terza ed ultima serie di Twin Peaks, un calcio in faccia ai tempi moderni che vogliono tutto e subito, investimento e rendimento, alla società dell’effimero, ai canoni hollywoodiani, al botta e risposta. Nei suoi 13 episodi, in cui – per gli standard degli stolti – non succede assolutamente nulla. Se non il sogno, l’incubo, la poesia, l’orrore, l’Altro… e allora sapete che vi dico? Che è giunto il momento di riguardarsi l’opera omnia di David Lynch. Grazie di tutto, maestro, ci rivedremo nella loggia bianca.
Chiara del Fiacco