Napoli, 9 mag – La festa scudetto a Napoli ci ha regalato ogni tipo di scena: criticabile, condivisibile, capibile, esagerata. In una sola parola “napoletana”. La vittoria del campionato di calcio ha portato anche i tifosi a contestare il patron Aurelio De Laurentiis che, con la complicità di un comitato per l’ordine pubblico, li aveva “disarmati” di bandiere e tamburi. Dell’identità, insomma. Lo stesso patron che poi ha fatto la pace con i tifosi con tanto di foto di rito. La prima gara interna da campioni d’Italia ha portato al Maradona anche l’ex rettore dell’Università Federico II e oggi sindaco juventino (non da oggi) Gaetano Manfredi, che, come Draghi e come Conte, “arruola” la sua bambina alla quale viene affidato il messaggio – preconfezionato – d’amore per la città di Napoli. Da napoletana stereotipata emigrante e studente di un altro ateneo mica quello retto da papà. E poi caroselli di auto, gente in strada, palazzi bardati a festa con gli immancabili nastri azzurri.
Mentre tutta Napoli, però, faceva festa e con essa i napoletani sparsi in giro per il mondo, da New York a Londra, dall’Australia al nord Europa, un altro napoletanissimo artista è stato costretto a “fare festa” a modo suo, il maestro Domenico Sepe, autore del magnifico capolavoro di Diego Armando Maradona a grandezza naturale, impreziosito dal calco originale del piede del D10S.
Lo scultore che distrugge la sua opera: breve storia del Maradona di Domenico Sepe
Si sarebbe dovuto parlare della magnificenza del capolavoro che ritrae il Pibe de Oro come un dio greco, apprezzare la tecnica a cera persa, la stessa dei bronzi di Riace, inorgoglirsi per l’omaggio dell’artista a Diego e al popolo napoletano tutto, visto che la sola richiesta del Sepe è stata quella di collocare la statua laddove tutti napoletani potessero vederla. Niente affatto. Già de Laurentiis, non si sa il perché, ordinò alla morte del campione argentino la “sua” statua presso le Fonderie Nolane – dalle parti di origine del sindaco – che “regalarono” un prodotto più “industriale” rispetto all’artigianalità plasmata dal Sepe che riuscì ad esporre la sua creazione per una sola giornata al Maradona. Dopodiché il Comune di Napoli non sapeva cosa fare – e come disfarsene, soprattutto – di questo omaggio artistico, fino a quando ha fatto sapere di non potere accettare perché la donazione artistica potrebbe comportare da parte dell’autore la richiesta degli alimenti. E non c’è cavillo o burocrazia da scomodare stavolta.
Leggi anche: Statua di Maradona, la tristezza di una buona iniziativa finita nel nulla
Poi sono venute le richieste di acquisto dei comuni limitrofi – Afragola e Casalnuovo su tutti – mai prese in considerazione da parte dell’artista. Fino a quando dal proprio profilo social Sepe ha annunciato che “solo l’artista decide il destino della sua opera”. E nel clima di gioia tanto attesa, mentre impazza(va)no i festeggiamenti e monta(va) il delirio, Sepe ha cominciato la distruzione della sua opera. L’autodistruzione. “Il tramonto del D10S”, come l’ha rinominata lui, una decisione sofferta che non va commentata, ma solo rispettata. Un’ingiuria, un’offesa alla cultura da parte di una classe dirigente autoreferenziale, un’incapacità di saper riconoscere il valore, se non quello della cancella culture, da parte di quell’intellighenzia Ztl cittadina che identifica ottimamente nient’altro che se stessa.
Dopo il caos (che non ha generato alcuna poltrona saltata) dell’inspiegabile e gratuito divieto di trasferta per i tifosi dell’Eintracht, dopo l’interdizione del tifo, se non a favore di uno stadio dove tutti sono seduti, composti e muti, ora le mummie se la prendono con le statue. Anzi con “la” statua, quella del D10S mentre Napoli si “consacra” ancora al fuoriclasse argentino scomparso, persino nella vittoria dello scudetto e loro incassano i fischi del Maradona nonostante la gioia del successo. Per questi interessati sciacalli un’altra medaglia alla capacità di distruzione conquistata sul campo, da appuntarsi sul petto ed esserne fieri. Meritatamente.
Tony Fabrizio