Parliamoci chiaro: se vinci una competizione sportiva, non sei automaticamente una potenza. Tradotto: non basta certo la vittoria della nostra Nazionale agli Europei per risolvere i problemi (serissimi) che funestano ormai da anni la Repubblica italiana. Su questo, ovviamente, siamo tutti d’accordo. Eppure, la conquista di una coppa di calcio non è un evento di scarsa rilevanza geopolitica. In caso contrario, non si sarebbero scomodati né il principe Harry né Mattarella a presenziare a Wembley, né Mario Draghi a ricevere gli azzurri all’indomani della finale.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di agosto 2021
Dopotutto, Boris Johnson – che, malgrado le apparenze, non è affatto uno sciocco – aveva subito capito l’antifona. E non ha perso tempo a caricare questa competizione di significati politici, e per di più geopolitici. La speranza di «BoJo» era che un’eventuale vittoria dei «leoni» inglesi potesse accrescere il suo consenso e, al contempo, alimentare il tema propagandistico della «Global Britain». Che il colpaccio non gli sia riuscito, naturalmente, è tutto un altro discorso. Il fatto è che il calcio, appunto, non è solo uno sport. E il soft power non è meno importante dell’hard power. Il potere, cioè, non si sostanzia solo in carri armati e testate nucleari, ma anche in coppe e medaglie. Perché le vie che conducono al prestigio e alla potenza sono, di fatto, infinite.
Una nuova religione
Certo, sarebbe molto facile far notare che i successi sportivi – qualora non accompagnati da una reale proiezione politico-militare – sono poco più che premi di consolazione. Ma questa notazione non è solo banale, ma anche piuttosto superficiale. E lo diventa in particolare se misconosciamo, in maniera arbitraria, un dato ormai acquisito: in un’Europa post-storica e in un mondo (soprattutto occidentale) che ha rimosso lo spirito guerriero dal proprio orizzonte valoriale, lo sport, o meglio il calcio, è diventato un efficace surrogato del conflitto armato.
Di più: grazie a un crescente processo di spettacolarizzazione, acceleratosi nell’epoca dei diritti televisivi, il calcio non solo esercita un’attrattiva sempre maggiore per porzioni di pubblico sempre più ampie, ma ha anche completamente riscritto i suoi confini spazio-temporali: non più liturgia domenicale da officiare nei classici luoghi di culto (gli stadi), ma fenomeno di consumo di massa che entra direttamente nelle nostre case, peraltro con calendari sempre più fitti.
Il calcio come arma geopolitica
In questo contesto è forse nobile, ma anche piuttosto ozioso, rimpiangere il «calcio di una volta». Molto più interessante è rilevare che il mondo del pallone, soprattutto se calato in un contesto internazionale, possiede una forte carica simbolica: amplifica e sublima il senso di appartenenza, trasferisce la dimensione del conflitto dalla politica (che annoia) e dalla guerra (che terrorizza) al rettangolo verde, agli spalti, al salotto di casa. Addirittura alle strade, se prendiamo in esame i caroselli di macchine e bandiere che, lo scorso 11 luglio, hanno invaso tutte le città italiane. Piaccia o non piaccia, il cosiddetto «calcio moderno» è diventato un vero e proprio asset geopolitico. Perché questo sport non è solo business, come ripete una stanca retorica che avrà sì un fondo di verità, ma che non esaurisce minimamente la complessità di questo straordinario fenomeno sociale. No, il calcio non è solo business, ma anche generatore di senso, catalizzatore di emozioni, fabbrica di sogni, fucina di epopee.
Non è difficile capire come mai, tra le innumerevoli discipline, proprio il calcio si sia imposto come arma geopolitica. Con i suoi circa 4 miliardi di tifosi, è semplicemente lo sport più seguito al mondo, senza alcun rivale credibile. I motivi di questo primato assoluto sono molteplici e ci porterebbero molto, forse troppo lontano. Ma possiamo limitarci a considerarne due in particolare: la spiccata carica agonistica del calcio e, insieme, il suo carattere collettivo. Essendo uno sport di contatto, maschio ma non violento, si presta benissimo a coniugare tecnica, fisicità e atletismo. Essendo poi un gioco di squadra, richiede disciplina, cooperazione, disposizione al sacrificio, coordinazione tra i giocatori, tattica e strategia. In sostanza, una partita di calcio è la perfetta simulazione di uno scontro militare.
L’arte più antica del mondo
Per tutti questi motivi, quando ricorrono le competizioni internazionali, e quindi scendono in campo le rappresentative di intere nazioni, il calcio diventa un fenomeno quasi ecumenico. Un fenomeno che travalica la cerchia degli appassionati, risveglia gli istinti agonali dell’uomo, riattiva la potenza dei simboli e della mistica nazionale: bandiere, inni, stereotipi etnici, antiche rivalità, aspirazione alla vittoria, ricerca del prestigio e della gloria. Gli Europei e i Mondiali, insomma, non sono banali tornei sportivi, bensì una manifestazione (attenuata e trasfigurata) dell’arte più antica del mondo: l’arte della guerra.
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Questa nuova dinamica era stata ben compresa, ad esempio, da Benito Mussolini, che non a caso fece di tutto per organizzare in Italia i Mondiali del 1934. Il Duce comprese cioè che la popolarità del football si stava ormai diffondendo su scala globale, tanto da essere divenuto un fattore (anche) geopolitico. Si pensi ai Mondiali del 1938, organizzati in Francia in un periodo assai delicato, ossia dopo le sanzioni comminate all’Italia fascista per la campagna abissina e mentre in Spagna ancora infuriava la guerra civile, con italiani e francesi che si trovavano ai lati opposti della barricata. Era ovvio che, in un contesto del genere, la partita Francia-Italia – con i fuorusciti presenti in tribuna – acquisisse un senso che non era solo sportivo. Stesso discorso per i Mondiali del 1954, dove la vittoria della Germania Ovest…
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