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Mulan (non) è un’icona del femminismo?

by Marco Battistini
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Roma, 24 dic – È andato in onda nella serata di ieri sulle reti Rai – in prima visione assoluta – il film Mulan, remake (datato 2020) dell’omonima pellicola d’animazione Disney uscita nel 1998: fin d’allora abbiamo conosciuto l’eroina sinica con il “filtro” femminista. Ma è proprio così?

Una leggenda cinese

Trasposizione cinematografica di un’antica leggenda cinese, la storia narra di Mulan, primogenita della famiglia Hua. Il padre, nonostante le rimostranze della moglie – preoccupata per un possibile disonore futuro – la introduce ai primi rudimenti del combattimento. La routine del villaggio è però interrotta da intercorse esigenze militari: le feroci tribù nomadi settentrionali, con il loro avanzare, minacciano l’integrità dell’Impero. Così ad ogni nucleo familiare viene imposto di contribuire alla causa inviando un uomo nelle fila dell’ esercito.

In casa Hua toccherebbe al vecchio e malato Zhou. La figlia, conscia di possedere particolari qualità marziali, con il favore della notte fugge di casa rubando l’armatura dell’anziano genitore. Presentandosi sotto mentite spoglie al campo militare. Superato positivamente un affrettato addestramento e dimostrato il proprio valore anche sul campo di battaglia, Mulan – “suggerita” dalla strega (avversaria) Xianniang – decide di svelare a comandante e commilitoni la vera identità. Punita con il congedo, non si piega all’offerta del nemico e continua – nonostante tutto – a combattere per la difesa dell’Imperatore.

Mulan: più Tradizione che femminismo

Sebbene fin dall’uscita del cartone animato – che ha già superato la soglia del quarto di secolo – la figura di Mulan venga avvicinata in qualche modo al controverso mondo del femminismo, il messaggio che (anche) il remake ci lascia corre in una direzione totalmente opposta.

È vero, Mulan finge di essere un maschio. “Si traveste”, qualcuno potrebbe far notare. Ma non lo fa al grido di “il corpo è mio e decido io”: si arruola al posto del padre che, ormai inabile al combattimento, andrebbe incontro a morte certa. La ragazza non combatte per sé stessa, non sente assolutamente il bisogno di emanciparsi. Anzi vuole integrarsi in quel qualcosa di più grande, superiore ad ogni singolo interesse personale, che nelle particolari coordinate storiche e geografiche è rappresentato dall’Impero cinese. Deve solo trovare la giusta via per far attivamente parte della sua comunità.

L’impero e la famiglia

Nessuna confusione di genere, insomma. E poco c’entra che Mulan trovi il suo posto in mezzo al cozzare delle spade, con arco e frecce nelle mani. “Non si può concepire la donna chiusa nella sua casa” teorizzava per lo stato fascista il deputato Giorgio Alberto Chiurco. Sempre più femminile che femminista, nella pellicola la ragazza è guidata dal una fenice, simbolo della sua famiglia. 

Esempio di unità imperiale, anche se cacciata dall’esercito, la giovane continua a combattere per questa causa superiore. D’altronde, come scriveva il filosofo cinese Lao Tze in natura è la flessibilità (unità alla perseveranza, aggiungiamo noi) a essere “modo della vita”. L’ampio risalto dato alle capacità del singolo allontanano ogni possibile soffio di ideologia individualista, atomizzante: l’impero è salvo, il focolare si riunisce. E il binomio uomo/donna non viene mai messo in discussione.

Marco Battistini 

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