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La Moka, un’italiana di successo: sempre la stessa, sempre migliore

by Marco Battistini
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Moka, Bialetti

Roma, 29 gen – “Ogni maniglia di alluminio è una lira di meno che va all’estero, cioè al diavolo”. Siamo nel settembre 1931, l’Italia deve fare i conti con i nefasti effetti del giovedì nero statunitense e l’ingegnere scrittore Carlo Emilio Gadda – sollecitato dalla penna di Arnaldo Mussolini – sulle pagine de L’Ambrosiano vivacizza il dibattito sull’innovativo “metallo leggero” che, luccicante e incorruttibile, piace tanto anche ai futuristi.

Mentre l’industria italiana richiede materie prime la nostra nazione produce il 10% della quantità mondiale di bauxite, rossastra roccia sedimentaria fondamentale per la produzione di alluminio. L’argentea lega è quindi la risposta nazionale alle prime crepe di un mondo – forse troppo – globalizzato e legato alla finanza. Duttile, veloce e resistente si presterà poi a diversi settori: sui mezzi di trasporto, nell’arredamento, in architettura.

Alfonso Bialetti, un artigiano che pensa in grande

Per la verità il materiale è già utilizzato per beni di consumo durevoli, come gli attrezzi da cucina. Tra queste realtà c’è un’officina a Crusinallo – paesino del Piemonte orientale – dedita alla produzione di semilavorati, fondata nel 1919 da Alfonso Bialetti. La fonderia in conchiglia viene così trasformata in breve tempo dallo spirito imprenditoriale del suo creatore in un laboratorio per progettare e realizzare prodotti finiti.

Moka, la rivoluzione in un caffè

Si dice che Bialetti abbia avuto l’intuizione giusta in un momento di “normale” quotidianità. All’epoca era infatti comune lavare i panni nella lisciveuse, pentolone con al centro un tubo d’acciaio. All’interno vengono messi gli indumenti, la liscivia – soluzione che presta il nome al recipiente – e l’acqua. Quest’ultima portata in ebollizione risale il condotto e dall’alto distribuisce uniformemente il detergente alcalino.

Così, osservando la moglie intenta a fare il bucato, nasce un’icona del “fabbricato in Italia”: la caffettiera – conosciuta in tutto il globo come italiana – composta da pochi semplici componenti (caldaia, filtro imbuto, guarnizione, piastrina, bricco) e dalla specifica base. Con l’idea di portare nel focolare domestico “l’espresso come al bar”, nel 1933 inizia la produzione di questa piccola macchina ad uso casalingo che – in particolare nel secondo dopoguerra – entrerà in ogni abitazione del nostro paese.

Il miglior caffè è pur sempre quello di…Mokha

Tra il 1936 e il 1940 la produzione si attesta sui 10mila pezzi annui – dopo il ‘45 con la svolta “industriale” promossa dal figlio Renato si arriverà a 18mila esemplari al giorno – che inizialmente trovano il loro sbocco commerciale in fiere e mercati. Particolare, invece, la scelta del nome Moka, che richiama a un porto del Mar Rosso (Mokha appunto, nell’attuale Yemen) da dove partivano navi piene della pregiata qualità arabica: lo stesso Pellegrino Artusi a inizio ‘900 nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene – una sorta di libro sacro dell’italica arte culinaria – sentenzia che “il miglior caffè è pur sempre quello di Mokha”.

Leggenda vuole che il Bialetti amasse coricarsi sigaro in bocca e prototipo nelle mani. Ma oltre l’inconfondibile linea – il brevetto infatti si riferisce alla sola base ottagonale – un’altra unicità: la particolare forma unita al materiale dominante – l’alluminio – permette il depositarsi di un doppio sedimento – calcare nella cisterna e miscela nella parte superiore – che con l’uso esalta il gusto del caffè all’italiana. Un bel paradosso che dura dal 1933: migliorarsi sempre pur non cambiando mai.

Marco Battistini

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