Milano, 7 ott – Mai come allora, mai più dopo di allora. Questa può essere l’equazione che lega l’architettura italiana e il fascismo. Dai tempi dell’Impero romano la penisola non aveva più visto la sistematica edificazione di un’idea, la sua costruzione pietra dopo pietra. Dopo la Seconda guerra mondiale invece l’architettura italiana viene di fatto distrutta, creando una frattura in una storia millenaria.
Il fascismo affronta l’architettura con approccio pluralistico, inserendola gradualmente in una visione olistica dello Stato. Il potere politico anche in questo campo apre ad ogni tendenza, fornendo ai suoi interpreti progetti e concorsi su cui cimentarsi; ai blocchi di partenza ci sono tutti: giovani leve e vecchia guardia, neoclassici e modernisti, eclettici e razionalisti, tradizionalisti e futuristi, architetti integrali, antiromantici, novecentisti.
Grazie a questi progetti la teorizzazione accademica non perde il contatto con la costruzione reale. Anzi, più si progetta e realizza, più si allarga e innalza il dibattito sulla forma urbana, che si intreccia con quello della forma della società. Ogni progetto diventa un paradigma, perché si inserisce nella vasta rifondazione che mira a dare un volto allo Stato sociale. Nascono così scuole, università, ospedali, case, centri educativi e sportivi, biblioteche, teatri. Si fondano nuove città, si modificano quelle esistenti. Sono circa 180 i concorsi per piani regolatori che vengono predisposti in quegli anni. Uno di questi è quello di Milano, lanciato nel 1926 da Cesare Albertini, capo dell’ufficio tecnico del comune e personaggio di spicco nel dibattito urbanistico europeo. Anche questo bando sarà terreno di incontro e scontro, segnando un momento cruciale per il dibattito sul senso dell’urbanistica, dell’architettura e dei loro rapporti.
Il progetto vincitore porta la firma di Piero Portaluppi e Marco Semenza, che riorganizzano la città mutandone profondamente la fisionomia. Lasciando piazza Duomo come perno di una città radiocentrica, puntano all’allargamento di Milano verso le aree esterne attraverso un’edificazione continua a raggiera, secondo una visione realista e antiromantica che accetta distruzioni parziali della città per ricreare il tessuto urbano. Il realismo del duo vincitore è chiamato però a confrontarsi con gli altri concorrenti, innanzitutto con il progetto secondo classificato, elaborato dai professionisti legati al Club degli urbanisti, fra cui Giovanni Muzio, Giuseppe De Finetti e Giò Ponti. La loro ricetta per Milano è l’inserimento di una strada di raccordo e la salvaguardia della città storica. Indicano il ritorno al classicismo – mediato dalla rielaborazione napoleonica – per trovare la ‘regola’ su cui impostare la nuova architettura, che non è però la griglia indifferenziata di Portaluppi.
Negli stessi mesi del concorso per il piano regolatore milanese si costituisce il Gruppo 7, che entra subito nel dibattito in corso su architettura e urbanistica, introducendo una nuova idea di ‘razionalità’. I membri del gruppo sono giovani laureandi e laureati in architettura, capitanati da Giuseppe Terragni. Si sentono gli “squadristi dell’architettura”, la nuova generazione all’assalto che vuole incarnare lo spirito fascista e dare un volto definitivo alla sua architettura: un volto moderno, un volto razionalista. Entrano subito in polemica con i predecessori e in particolare con i “neoclassici”. Ne ripudiano gli aspetti decorativi, trovando una maggiore intransigenza nel “classico”: puro, assoluto, matematico. Nell’epoca della proporzione cercano i pochi, fondamentali ‘tipi’ dell’architettura, validi in ogni tempo. Per questo, diranno, «Roma costruiva in serie»; perché usava una geometria legata alla logica e alla funzionalità, la stessa che il Gruppo 7 applica alla standardizzazione e alla modularità. Questa è l’architettura che consente l’abbandono dell’individualità e del particolarismo, in funzione di una dimensione universale e in assonanza con lo spirito del tempo, lo Stato organico meta-individuale.
I razionalisti troveranno terreno su cui lavorare, raccogliendo sia sconfitte che successi duraturi, nel tentativo di dar vita a un movimento, di anima italiana ma di respiro europeo, capace di sintetizzare la modernità. “In Italia non vi è nulla prima della Casa del fascio di Como” di Terragni, scriverà nel 1960 Nicolaus Pevsner, riportandoci all’equazione iniziale fra fascismo e architettura. Nonostante questo sforzo la compagine razionalista non riuscirà a far aderire la propria maschera al volto del fascismo. Mussolini troverà più proficuo fare il direttore di orchestra delle varie tendenze piuttosto che definire i contorni di un’arte di Stato. Le istanze razionaliste si uniranno così alle altre voci, nel moto centripeto che ri-porterà il dibattito sulla forma urbis a Roma: sarà questo il teatro dove andrà in scena la più alta rappresentazione della pietrificazione delle idee fasciste. Gli “squadristi dell’architettura” potranno così vivere la loro marcia su Roma, inserendo elementi di razionalismo nell’impianto monumentale della capitale che, grazie alla regia d’insieme, raggiungerà un “eclettico sincretismo stilistico”, sintesi fra le varie ‘verghe’ architettoniche chiamate a rinfocolare il mito della città eterna.
Simone Pellico