Roma, 26 apr – A causa del virus del Covid-19 e di un altro virus di più lunga durata, quello dell’imborghesimento, i 150 anni dalla nascita di Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin, sono passati mestamente in sordina. Tutto lascia pensare, del resto, che anche in mancanza della prima epidemia poco o nulla sarebbe cambiato rispetto alle celebrazioni di tale ricorrenza, di cui si sono ricordati solo pochi ambienti nostalgici. È davvero un triste destino, quello del comunismo: abbastanza lontano dal mainstream per essere messo da parte, ma abbastanza vicino a esso per non poter assurgere al rango di Totalmente Altro da condannare ed esorcizzare quotidianamente, come accade al fascismo.
Un soprammobile sugli scaffali del globalismo
La parabola di una delle più incredibili avventure ideologiche della storia, fatta di passioni, entusiasmi, fanatismi, errori e orrori viene quindi relegata a soprammobile impolverato sugli scaffali del globalismo, nell’angolo più lontano dagli sguardi degli ospiti, dove si ricordano quelli che “ci hanno provato ma hanno fallito”, quelli “dalle buone intenzioni e dai pessimi risultati”, quelli “bravi in teoria ma disastrosi in pratica”. I parenti scemi, insomma.
Due a confronto
Tre anni fa, nell’ambito delle celebrazioni, anche quelle un po’ imbarazzate, del centenario della Rivoluzione d’ottobre, Emilio Gentile fece uscire un libretto intitolato Mussolini contro Lenin (Laterza). Un confronto davvero interessante tra le due figure cruciali del Novecento. Ebbene, dal confronto, il fondatore del fascismo usciva come una figura nettamente più interessante, complessa e diremmo anche più autenticamente rivoluzionaria (quanto alla loro presunta conoscenza, scrive Gentile, «risulta probabile, forse molto probabile che un incontro occasionale fra Lenin e Mussolini a Ginevra abbia avuto luogo il 18 marzo 1904 nella Brasserie Handwerk, senza che ciò significhi una conoscenza tra i due», mentre risulta privo di riscontri il famoso rimprovero di Lenin ai socialisti italiani per essersi fatti scappare Mussolini).
Il borghesuccio
Tanto per cominciare, Lenin crebbe in una famiglia benestante, in quello che Gentile definisce «un ambiente agiato e tranquillo», tant’è che da giovane si firmava «nobile ereditiere». A scuola era uno studente modello e «mai negli anni scolastici Vladimir fece un gesto di ribellione». Nulla avrebbe lasciato presagire un’evoluzione in senso rivoluzionario di questo piccolo lord un po’ secchione. La molla fu la sorte del fratello maggiore Aleksandr, impiccato come terrorista per aver aderito a un fallito complotto contro lo zar. Da quel giorno, il giovane Vladimir decise di consacrarsi alla lotta all’autocrazia. La distanza fra lui e il popolo reale, tuttavia, resterà sempre forte. Scrive Gentile: «Salvo un breve periodo a San Pietroburgo alla fine dell’Ottocento, Lenin non partecipò mai alla vita reale degli operai e dei contadini per i quali lottava per liberarli dalla schiavitù del capitalismo. La sua osservazione della realtà sociale avveniva unicamente attraverso lo studio». E ancora: «Vladimir esercitò per poco tempo la professione di avvocato, che abbandonò per dedicarsi alla professione di rivoluzionario. Da allora, nessun lavoro lo impegnò per guadagnarsi da vivere: grazie al sostegno finanziario della madre, poté dedicarsi interamente alla politica, per la quale, fra il 1893 e il 1900, subì il carcere, il confino e l’esilio. Tuttavia, in prigione, nel confino e nell’esilio, non ebbe a patire né le angherie dei carcerieri, né la fame, né la noia: fu trattato senza durezze, si nutrì come desiderava, e soprattutto ebbe sempre ciò che gli occorreva per studiare, meditare, scrivere». Non stupisce che Curzio Malaparte, in un libro uscito nel 1932 in francese, lo abbia definito un bonhomme, un borghesuccio.
Il figlio del fabbro
Pensiamo ora a Mussolini, il «figlio del fabbro», cresciuto in una condizione più che modesta, allevato a pane e socialismo strapaesano romagnolo, fra il desco umile e umiliante degli alunni più poveri del collegio e continue risse e ribellioni, l’esule dagli occhi stralunati che finisce a dormire sotto i ponti in Svizzera, l’ospite affamato e bestemmiatore che prende d’assalto la dispensa di una sgomenta Angelica Balabanoff… Non che la povertà o una vita difficile siano dati meritori in sé, beninteso. Ma certo, per chi si vanta di parlare a nome del popolo, un apprendistato maturato sui libri o per la strada può fare la differenza.
La rivoluzione: scienza o arte?
Ma Mussolini e Lenin rappresentano soprattutto due tipi umani. C’è, nel russo e negli altri capi comunisti, una freddezza cartesiana, lucida, algida che in quegli anarcoidi dei fascisti, Mussolini in testa, manca completamente. Per i comunisti, la rivoluzione è una scienza, per i fascisti un’arte. Non stupisce che tutti i leader rossi, a ogni latitudine, abbiano versato fiumi di inchiostro per formulare un metodo rivoluzionario, cosa che i fascisti non hanno fatto pressoché mai, con la parziale eccezione del Mein Kampf hitleriano, che peraltro viene scritto dopo un’avventura rivoluzionaria finita male per manifesta improvvisazione. Se Lenin scrisse il Che fare?, i fascisti preferiranno sempre il fatto compiuto. Dalla stessa mentalità deriva inoltre il culto marxista per il dibattito, per la verbosità, fino ai comunicati fiume delle Br zeppi di analisi macroeconomiche e di plumbei neologismi, laddove i fascisti prediligeranno sempre l’azione per l’azione. Allo stesso modo, il frazionismo patologico dell’estrema sinistra deriva sempre da dispute ideologiche, mentre l’estrema destra si unisce e si divide sempre per temperamenti.
Metodo e istinto
I due atteggiamenti hanno pregi e difetti speculari: il marxismo garantisce un metodo, quindi uno schema replicabile ovunque e da chiunque, mentre il fascismo si affida all’istinto, per cui basta l’assenza di un capo che ne sia provvisto o delle contingenze che favoriscono il conformismo a smontare ogni velleità rivoluzionaria. Ma, viceversa, il marxismo tende a farsi sorprendere dalla storia e ha più difficoltà a mutare paradigmi di fronte ai mutamenti della realtà, mentre la mentalità fascista è decisamente più elastica e ben conosce la natura eraclitea del divenire storico. Proprio per via della diversa mentalità, i fascisti hanno anche una maggiore tendenza a riconoscere nei dirimpettai dei frères ennemis, degli avversari che è necessario combattere all’ultimo sangue, ma in cui è possibile rispecchiarsi e, quando le armi tacciono, con cui è possibile dialogare o persino ricomporsi in sintesi (anche se la cosa è avvenuta per lo più in casi individuali, da Bombacci a Doriot). Una dinamica che i comunisti nel loro insieme non comprendono quasi mai e anzi denunciano come infiltrazione e inquinamento, in quanto non ne riconoscono la genuinità.
E tuttavia, se Mussolini e Lenin rappresentano degli idealtipi eterni, se essi riuscirono nelle loro rivoluzioni fu anche perché non si esaurivano in essi. E se il fascista seppe mettere il proprio vulcanico istinto al servizio di un metodo, va detto che, pur con tutta la sua ostentata scientificità, c’era pur sempre in Lenin una scintilla (Iskra, La scintilla, era anche il nome di un periodico da lui fondato) da animale politico, da forgiatore di storia oltre ogni schematismo. È per questo motivo che Drieu La Rochelle ricondurrà un po’ arbitrariamente Lenin alla «sinistra nietzscheana» più che al marxismo. È anche la ragione per cui, in modo filologicamente più penetrante, Gramsci parlerà della Rivoluzione d’ottobre come della «rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx», in quanto «i fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così feroci come si potrebbe pensare e come si è pensato». E aggiungeva, con un accento che qualcuno ha ritenuto gentiliano, che se la Russia aveva potuto fare la rivoluzione senza passare per tutte le tappe dello sviluppo capitalistico, questo era accaduto perché «il popolo russo è passato attraverso queste esperienze col pensiero, e sia pure col pensiero di una minoranza». Aver saputo trovare questa sintesi di pensiero e storia, di teoria e prassi, è ciò che ha distinto Lenin dai tanti Folagra che ne hanno ricalcato le orme, sapendo tutto del metodo rivoluzionario senza essere capaci di conquistare un’assemblea di condominio.
Ecco perché, una volta ricondotto Lenin nel suo elemento e riconosciutane l’irriducibile alterità, viene quasi da provare nostalgia per l’epoca in cui i nemici, guardando al cielo, non vi ritrovavano le loro radici, ma quanto meno provavano a dargli l’assalto.
Adriano Scianca
6 comments
La differenza che non mi sembra sia stata riportata nell’ articolo è che Mussolini aveva rispetto per la vita altrui mentre Lenin è stato un vero criminale.
Il famoso delitto Matteotti,sfruttato dalla sinistra per far passare il Duce come assassino nella realtà sembra dovuto al fatto che Matteotti stava per denunciare in parlamento un giro di tangenti su concessioni petrolifere che toccava anche il Re!Per alcuni oppositori vi fù il confino e niente piu’.Se si fosse saputo di crimini del Duce pensate che non gli tiravano subito fuori??
Per quanto concerne Lenin sono invece noti i suoi ordini di sterminare centinaia di oppositori nelle città conquistate dai bolscevici ai tempi della rivoluzione dicendo che servivano da esempio.
I due personaggi non sono comparabili; Lenin meritava la morte senza nemmeno un processo come invece tocco’ al povero Duce (ucciso per di piu’ a tradimento e a bruciapelo)
Non vi preoccupate: se non hanno festeggiato i 150 anni dalla nascita di Lenin, festeggeranno sicuramente i 150 anni dalla nascita di Trotszky.
In prima fila ci saranno però gli americani e la loro avanguardia neocon.
Una domanda impertinente: quindi Nietzsche potrebbe essere l’anello di congiunzione tra Mussolini e Lenin?
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Interessante e ben fatta disamina.
Però il fascismo fu un governo AUTORITARIO, non TOTALITARIO come comunismo o nazismo, ovvero un innesto in una società monarchico-liberale che annaspava nell’inefficienza e nel caos sociale; prova ne sia che per liberarsi del fascismo fu sufficiente un OdG del Gran Consiglio del fascismo stesso.
Pertanto a mio modesto avviso il confronto tra i due leader ha poco significato.