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L’appartenenza come forma di esistenza più intima. Mishima Yukio

by La Redazione
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Questo estratto del saggio, pubblicato per gentile concessione dell’editore, è contenuto nel libro «Yukio Mishima – Infinito Samurai» edito da Idrovolante Edizioni. [IPN]

Roma, 14 gen – “Il carattere è il destino“. Nessuna massima potrebbe riassumere meglio l’essenza della vita di Mishima Yukio, consacrata alla dicotomia spiritualità-azione persino nella sfera familiare. Di nobile ascendenza guerriera, egli vive i fatti del conflitto e del dopoguerra come fossero eventi della propria vita privata. Il Giappone della lunga era Shōwa[1] è un Paese che vive probabilmente uno dei cambiamenti più radicali della propria storia. Incastonato geograficamente fra l’immensa Cina e la penisola coreana, durante tutto il corso della sua millenaria esistenza, l’Impero giapponese aveva sempre saputo mantenere una posizione di temuta presenza e riconosciuto prestigio. Il 1945 infligge un colpo mortale alla base di questo sistema di valori assiomatici, del quale l’Imperatore, divina progenie della dea Amaterasu, ne rappresentava il fulcro vivente.

Il crollo dell’identità giapponese

Hiroshima e Nagasaki impongono il crollo dell’identità del Giappone di Hirohito, ormai degradato a uomo qualunque, tramortito dagli eventi e dalla pesantezza del giogo americano, impossibile da scardinare. Gli anziani sopravvissuti si aggirano come presenze evanescenti in case popolate da bambini incapaci di sorridere e adulti scioccati. In questo generale clima apocalittico post-conflitto, la voce di Mishima si innalza a eco di antiche glorie volutamente accantonate nell’oblio. A cavallo fra anni ’60 e ’70 ormai il Giappone è anestetizzato rispetto ai dolori passati. E indirizza i propri sforzi verso una ricostruzione economica che però non incontra la corrispondenza spirituale. Certamente, Mishima non è l’unico autore nipponico a rendersene conto, eppure è senza dubbio Colui che meglio incarna l’antico spirito del Giappone.

In patria è un personaggio detestato dalla sinistra pacifista e guardato con diffidenza dalla destra conservatrice. Una presenza troppo eclettica da poter ricevere una fissa e adeguata collocazione politica. Il suo pregevole interesse per l’Occidente -con il suo coup de foudre per la Grecia classica del Bello e delle proporzioni perfette – trasformato in profonda conoscenza delle lingue, degli usi e dello stile occidentale non intacca tuttavia la sua autentica natura nipponica. “Io sono giapponese. Sono nato e morirò così. Non voglio essere altro che giapponese!”[2]

Mishima Yukio: “io sono giapponese”

Tale affermazione non viene cristallizzata come un aforisma, non viene scelta a conclusione di proclami patriottici. Viene pronunciata durante l’incontro con gli studenti universitari della sinistra di Zenkyōto nel maggio 1969, in polo nera e sigarette divorate ininterrottamente. In una posa plastica, sciolta e disinvolta, pronta alla miglior inquadratura delle numerose macchine fotografiche presenti, quasi simile a uno scagnozzo della yakuza. A beffa dello scherno rivoltogli poco prima dell’ingresso in aula: “Sei un gorilla anacronistico!”. Nel pieno di questo dibattito che quasi somiglia a un incontro di fioretto, Mishima riconferma due punti-chiave del suo pensiero, sorprendentemente in comune con Zenkyōto: l’anti-intellettualismo e l’accettazione della violenza, purché sostenuta da un valido impianto ideologico.

In Italia solo D’Annunzio, come Mishima, ha saputo incastrare la propria vita e le proprie opere in un vigoroso richiamo al passato, quando la stragrande maggioranza dell’élite culturale si dichiarava totalmente proiettata allo slancio estremo verso il futuro, con la voglia di scrollarsi di dosso l’antico. Vita e letteratura sono per questi due autori elementi inscindibili. E non è un caso, probabilmente, che Mishima fosse il traduttore del Vate per il giapponese.

Una folgorante attualità

Perché dobbiamo seriamente parlare ancora di Mishima, un autore sul quale si è detto, scritto, analizzato, presunto, costruito e decostruito di tutto? A cento anni dalla sua nascita e a centinaia di migliaia di chilometri di distanza (non solo) culturale riesce tuttavia a esercitare ancora una fascinazione – per qualcuno spaventosa- derivante dalla sua folgorante attualità. Può dunque essere considerato un’icona pop, come qualche biblioteca occidentale vorrebbe farci credere? L’intento di questa raccolta è quello di stimolare anche nei lettori più acerbi non la risposta ai vari quesiti. Bensì la nascita di ulteriori domande, al fine di imprimere il sigillo di un’eternità dinamica a un’esistenza dedicata a un’insaziabile ricerca della bellezza, dell’erotismo violento, mai lontana dal solco della tradizione.

I saggi presentano una sorta di fil rouge da ricercarsi nello spirito di rivoluzione in continuo rinnovamento caratterizzante soprattutto l’ultimo decennio di vita dell’autore. Periodo durante il quale egli matura la piena consapevolezza dell’impossibilità di restaurare quell’antica scala di valori sulla quale si era sviluppata tutta la civiltà nipponica e sceglie infine di lasciare la sua stessa vita a garanzia di tale presa di coscienza. Quando Mishima pronuncia il suo ultimo discorso sulla balconata degli uffici del Generale Mashita, infatti, non è animato dalla speranza di successo. Non rivela progetti di golpe, non attende ovazioni infuocate. Egli sa che gran parte dell’uditorio nemmeno possiede l’adeguata struttura mentale per poterlo comprendere, ma soprattutto per poter decifrare il senso del successivo estremo gesto.

Per riprendere l’affermazione del militante Akuta Masahito[3], con il quale Mishima aveva avuto il dibattito sessantottino presso l’Università di Tōkyō: Il nemico comune è il Giappone osceno e ambiguo. Quello stesso Giappone che non seppe comprendere all’epoca la verità di Mishima, un guerriero della vita inebriato dalla seduzione della bella morte antica, antidoto infallibile contro la lenta decadenza moderna.

Selenia De Felice


[1] L’era Shōwa, corrispondente al regno di Hirohito. È la più lunga del Giappone moderno-contemporaneo e parte dal dicembre 1926, per poi concludersi nel gennaio 1989, anno della salita al trono dell’imperatore Akihito.

[2] Mishima: The Last Debate (三島由紀夫vs東大全共闘〜50年目の真実〜, Giappone, 2020), regia di Keisuke Toyoshima; narratore Masahiro Higashide; produzione “Mishima: The Last Debate Film Partners”.

[3] Akuta Masahito è attualmente un apprezzato maestro del teatro giapponese contemporaneo. Negli anni ’60, era una delle figure più eminenti dell’area creativa del movimento Zenkyōto ed ebbe il dibattito diretto con Mishima durante l’iconica giornata del 13 maggio 1969.  

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