“W W W l’America futurista!” scrive con grafia meccanica ma libera Fortunato Depero nel 1928. Lui, uomo nuovo nella nebbia del mondo nuovo. Fra le “strette pareti regolarmente foracchiate, come pezzi di gigantesco scatolame turrito” dei grattacieli. Lui, immigrato di lusso – lusso artistico – con valigie non di cartone ma di tela, tela dipinta, impalcatura di opera futurista. Lui, davanti al molo, al “mare rapace”, all’Augustus, a undici giorni di viaggio nella sua placenta, alla moglie Rosetta. Lui, con davanti New York, che gli sbuffa in faccia come un toro. Depero torero, primo futurista a visitare realmente gli Stati Uniti, a voler guardare se sotto la gonna della modernità c’è una Babele che crolla o una città che sale.
Inizia così la sua partita a scacchi con la Grande mela, attraverso le caselle bianche e nere, le luci e le ombre di una città e di un continente. Segue il volo dei “geniali fasci di ascensori” che sembrano figli di Sant’Elia, ma sprofonda nel color fango dell’ostello dove stazionano gli europei appena sbarcati. Condivide il desiderio marinettiano di contemplare dal vivo “lo slancio aggressivo, guerriero e minaccioso” dei grattacieli, ma gela davanti a un metallo che sembra dappertutto, “per le strade, nelle case e nell’animo”.
Poi Depero si assesta, assesta i suoi colpi. Con la bacchetta magica tramuta una stanza del Transit hotel nella Futurist House, in quella casa d’arte che si porta dietro come un guscio di tartaruga. Da lì guarda la città, il teatro di posa dove scorrono tripudi e fallimenti. Vende quadri, invita compratori con la scusa di un pranzo italiano, organizza mostre, ridisegna i panni grafici di riviste, prodotti, ristoranti, costumi di teatro.
Quando esce dalla sua ambasciata d’Italia, Depero si fa attore di New York, nella “notte piena e nera trapunta di stelle”. Ne vive le poche pause, ne infiamma le accelerazioni, nell’arte visiva come nella scrittura. Osserva le strade, “viscere-corridoi” in cui si frantuma la “folla-coriandoli, folla-formiche”, la folla che “va e viene, evaevieneevaevieneevaeviene”. Assorbe il rumore della metropoli, ricreando le voci e i suoni del suo materiale, dei suoi numerosi figuranti, tutti accavallati in un magma che Depero traduce in onomalingua ed erutta come un vulcano. “Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu / iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii / eeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee” emette il nano ammaestratore di pulci e topi bianchi, mentre guarda in faccia lo spettatore e con la mano taglia l’aria presentando lo spettacolo della vita in miniatura, della vita nella città gigante.
Sarà la marea della crisi del ’29 a rigettare Depero sulle spiagge italiane, marinaio in un mondo di naufragi. “America dollari. Italia sole. Viva il sole!”, dirà una volta tornato, “come un arlecchino ebbro di spumante”.
New York, mandata in onda da Depero, oggi a sua volta manda in onda l’artista. Al Cima (Center for modern italian modern art), fino al prossimo 28 giugno, Depero è one man show con oltre cinquanta pezzi. Al Guggenheim invece divide il palco con gli altri futuristi, per una rassegna importante e per questo delicata. Il nervo del futurismo, se lasciato a lessare con il neutralismo e il politicamente corretto, si sa, marcisce invece di marciare.
In ogni caso: “Brindo! Fischio! Rischio! Me ne infischio!”, direbbe Depero.
Simone Pellico