Roma, 31 dic – A fine dicembre 1926 un anatema papale si abbatté sulla destra francese. Pio XI, che già il 20 di quel mese aveva ingiunto ai cattolici transalpini la «rottura» con l’Action Française, ribadì il 29, con un decreto del Sant’Uffizio, la condanna del movimento nazionalista, minacciando gli iscritti recalcitranti di interdire loro l’accesso ai sacramenti. Il pronunciamento, in virtù del quale il papa proibiva ai fedeli di «aderire attivamente alla scuola di coloro [i capi dell’Action Française] i quali antepongono interessi di partito alla religione», non giunse Oltralpe inaspettato, date le incomprensioni che già esistevano tra gli «azionisti» e le gerarchie ecclesiastiche (l’AF era stata oggetto, per esempio, degli strali dell’arcivescovo di Bordeaux, che ne aveva definito i dirigenti «cattolici per calcolo e non per convinzione»).
«Disobbedire al padre»
La «scomunica» di un’organizzazione monarchica e nazionalista che si proclamava apertamente cattolica suscitò scalpore in Francia e non solo; sebbene, considerata col senno di poi, l’iniziativa vaticana non sorprenda più di tanto. Nel prosieguo del suo pontificato, infatti, Pio XI non avrebbe mancato di ribadire la propria ostilità per i movimenti politici troppo inclini a contrapporre all’Assoluto per eccellenza – il dogma cattolico – assoluti più terreni quali nazione, Stato o razza (fu il papa della Conciliazione a promulgare, nel 1931, l’enciclica Non abbiamo bisogno, in cui bollava il fascismo italiano come «statolatria pagana»).
Che comunque in gioco vi fosse, tornando al 1926, un’incompatibilità tra l’universalismo della Chiesa romana e il nazionalismo dell’Action Française, lo aveva ben compreso Charles Maurras, lo scrittore provenzale che del movimento fu teorico e guida. «Il padre», egli scrisse in risposta all’anatema di Pio XI, «il quale pretenda dal figlio che uccida la madre, può essere ascoltato rispettosamente, non però obbedito».
Charles Maurras, un «ateo devoto»
La metafora impiegata da Maurras per motivare l’impossibilità sua e dei militanti dell’Action Française di accettare la condanna papale e di sottomettersi all’autorità del pontefice è degna di rilievo. Al padre spirituale (il papa), che ingiungeva ai figli (i cattolici dell’Action Française) di rinnegare la madre (la Francia), non si poteva riconoscere obbedienza. Non è agevole dire quanto sofferta sia stata la scelta di Maurras, il cui cattolicesimo, a dire il vero, fu sempre tiepido. «Ateo devoto», per così dire, egli aveva, della religione, un’idea «strumentale». Paganeggiante, positivista e agnostico, aborriva il monoteismo, colpevole di aver distrutto l’armonico pluralismo della religiosità classica, e vedeva nel cattolicesimo soprattutto un efficace principio politico, organizzativo e gerarchico, grazie alla forma romana che esso aveva assunto e che gli aveva consentito di neutralizzare il «veleno» anarchico ed egualitario del cristianesimo primigenio.
Certo il cattolicesimo, con la monarchia, era un fondamento dell’identità francese; senza dubbio la Francia era la «figlia primogenita» della Chiesa; sicuramente, il Sillabo di Pio IX era stato una lodevole dichiarazione di guerra contro il liberalismo e la democrazia. Tutto ciò era vero, ma nel cuore di Maurras, nel nucleo forte della sua visione, il rispetto per Cristo e l’obbedienza al papa cedevano il passo a un’icona ben più meritevole di venerazione: la Francia.
La paura come «sentimento fondamentale»
La nazione infatti, per Maurras, è «la più ampia delle cerchie comunitarie», società «naturale» e «storica» a cui si appartiene per nascita e non per scelta; un bene che si eredita, un’entità radicata in un «suolo» – la «terra degli avi» – cui è dovuto un sentimento di pietas filiale. Essa dunque, non la Chiesa, universale per definizione, è l’orizzonte entro cui si forma l’identità della persona, nella fedeltà al retaggio degli antenati, la cui salvaguardia è affidata al «nazionalismo integrale». France d’abord, dunque, essendo la patria il centro dell’universo dell’Action Française; una patria per le cui sorti è doveroso, in epoche di crisi, provare angoscia. È, quest’ultimo, un elemento del nazionalismo maurrassiano indagato da Ernst Nolte. Il «sentimento fondamentale» in cui si radica il pensiero di Maurras è infatti, per lo storico tedesco, la paura.
Maurras teme «per qualcosa»: per un mondo amato a rischio di dissolversi; per le belle, ma delicate, creazioni artistiche del passato francese ed europeo; per lo Stato, il cui ordine poggia sempre su fragili basi; per l’identità dei popoli, erosa dal meticciato; per le nazioni, come la Francia, «meraviglia di tutte le meraviglie», che è sì una «dea», ma che, potendo essa perire, «fa appello alla nostra devozione» affinché la si conservi in vita. Ed egli, inoltre, ha timore «di qualcosa»: dei nuovi barbari «armati delle contraddittorie parole d’ordine di libertà ed eguaglianza»; di chi sogna una «futura umanità non più divisa in nazioni»; del liberalismo, del democratismo, del socialismo materialistico e dell’anarchismo, che veicolano la dissoluzione di ciò che è più bello e più caro.
«Resistere alla trascendenza»
L’esegesi psicologica del maurrassismo si collega, del resto, alla definizione transpolitica che Nolte dà del fascismo (in cui lo storico include l’Action Française) come un «resistere alla trascendenza», alla «libertà verso l’infinito che […] minaccia di distruggere ciò che si conosce e si ama». L’uomo infatti, per Nolte, è «trascendentale», portato alla «critica all’essere empirico», alla realtà in cui è immerso e che lo limita. Tale atteggiamento, però, entra in conflitto con l’amore che l’uomo stesso prova per tale realtà limitante. Il che, passando dalla dimensione filosofica a quella pratico-politica (dalla «trascendenza teoretica» alla «trascendenza pratica»), si afferma come dialettica tra «rivoluzione» e «preservazione» dell’esistente; con la prima istanza che, all’epoca di Maurras, sembrava prevalere sulla seconda.
Nella società borghese e liberale del Sette-Ottocento, infatti, operava una «trascendenza pratica», un «processo sociale» che allargava senza posa i rapporti tra gli individui, liberando «il singolo uomo da vincoli tradizionali […] fino a non lasciare intoccati nemmeno i poteri naturali-spirituali». Si allude qui al progresso liberale e capitalistico-borghese dell’età moderna, agli albori dell’industrializzazione diffusa; ma ciò potrebbe ben riferirsi, oggi, al fenomeno politico, culturale ed economico della globalizzazione. E al globalismo, l’ideologia che lo giustifica e promuove.
Charles Maurras, l’anti-globalista
Il globalismo contemporaneo, infatti, significa sradicamento dei popoli e dissoluzione della sovranità degli Stati per la creazione del cittadino globale; è impulso all’omogeneizzazione economica, coordinata dalla finanza internazionale, che porta con sé la disgregazione della stabilità professionale e l’erosione della dignità del lavoro. Orbene, in Charles Maurras possiamo trovare spunti di reazione a tali processi dissolutori, che si annunciavano al suo tempo e che si palesano, in tutta la loro portata, nel nostro.
Contro la minaccia dello sradicamento, egli ribadiva infatti la devozione alla patria, alla «Francia [che] si vede e [che] si tocca, [che] ha un corpo [e] ha un’anima»; una patria che, configurandosi come Stato, necessita di «assoluta sovranità» onde evitare il rischio di diventare «nazione soggetta». E contro il capitalismo bancario, apolide e trionfante, reclamava l’esclusione della «finanza cosmopolita» dalla borghesia nazionale. Il «nazionalismo integrale» di Maurras, per tirare le somme, non è dunque un’anticaglia ideologica, come non lo è quello dell’italiano Enrico Corradini. Liberato dalla scorza monarchica, depurato da un certo esclusivismo franco-centrico e dal suo problematico legame con il cattolicesimo, può tuttora fornire, a chi ne sia in cerca, armi concettuali efficaci e per nulla spuntate.
Corrado Soldato