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Jack Kerouac, il fenomeno “beats” e l’accoglienza in Italia

by La Redazione
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Roma, 26 gen – Ezra Pound una volta disse, “Il tipo umano che ha costruito l’America era nomade”. Negli anni ‘50, Jack Kerouac descriveva così quel tipo umano: “Nomadi con il sacco sulle spalle, vagabondi del Dharma, che si rifiutano di aderire alle generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze che tanto nemmeno volevano veramente come frigoriferi, apparecchi televisivi, macchine, almeno macchine ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e generale robaccia che una settimana dopo si finisce col vedere nell’immondizia, tutti prigionieri di un sistema di “lavora, produci, consuma, lavora, produci, consuma”, ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia, o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino”.

Un profeta controverso e contraddittorio: il migliore

Un discorso che vale più di un manifesto politico. In queste parole si scorge il tratto caratteristico della beat generation: fenomeno esistenziale e culturale molto vitale, apparso nella giovane America del dopoguerra e trasmesso a un’Europa disincantata.

Jack Kerouac è stato uno dei profeti di questa generazione, il più controverso e contraddittorio, il più amato e disprezzato. Il migliore, forse il più lucido, nonostante le sue mastodontiche bevute. Tanto per cominciare, come precursore riconosciuto del movimento beat, Kerouac, autore del celeberrimo On the Road e inventore del termine beat, inteso da lui come abbreviazione di beatitude, è cattolico, conservatore in politica e buon patriota nella vita. Nato il 12 marzo 1922 a Lowell, nel Massachussets, ha espresso in pieno lo spirito dell’epoca, il senso di ribellione e le contraddizioni di un ambiente giovanile irrequieto. Sebbene non avesse la patente, adorasse il baseball, l’America e sua mamma e fosse sarcastico con i “capelloni”, rappresenterà sempre l’icona di una vita profondamente inquieta e sfrontata.

Voglio che Dio mi mostri il suo volto

On the road (sulla strada), il suo romanzo più famoso, raccontava in slang e in forma autobiografica le peripezie di uno scrittore, Sal Paradise, che attraversa gli Stati Uniti con l’autostop. Il fenomeno beat fu meravigliosamente caotico. In mezzo c’è di tutto, spinte utopiche ed edoniste con un tratto di conservatorismo libertario: Ginsberg, per dire, fondeva l’erotismo di Walt Whitman al nichilismo buddhista; Burroughs era un dadaista lisergico; a Gary Snyder piacevano i canti dei nativi americani, qualcuno “giocava” con il marxismo, quasi tutti adoravano David Thoreau (quello di Walden) e ascoltavano il jazz.

E Jack Kerouac? Era un buon cristiano. Cresciuto in una famiglia profondamente cattolica, disprezzava tuttavia quel bigottismo assai diffuso nell’America degli anni Trenta e Quaranta. Che tipo di rivolta è stata quella dei beats? Sicuramente non era interpretabile con le categorie classiche della politica. Quando in un’intervista televisiva chiesero a Kerouac che cosa stesse cercando, lui semplicemente rispose: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”. Anche se poi si finiva per cercarlo nei paradisi artificiali, nella libertà sessuale o nel sax di Charlie Parker, la meta ultima del viaggio in stile beat generation era la ricerca del Divino e dell’Assoluto.

“Andare sempre non importa dove”

Interessante quello che scrisse Antonio Spadaro in un’intervista rilasciata all’Osservatore Romano il 18 dicembre 2007. A proposito della spiritualità di Kerouac: “Il senso della parabola di Kerouac si riassume tenendo insieme, per quanto in maniera sempre instabile, due poli: una radice che desidera senza sosta accedere a tutti i nutrimenti terrestri e una forte tensione a ciò che è souleternitysalvation (anima, eternità, salvezza): tutte parole sue. Insomma una tensione dialettica tra “carne” ed “infinito”. Lo slancio vitale, il desiderio incontenibile di vita, che sono proprio alla base della spiritualità dello scrittore, lo porteranno a subire la realtà più che a sperimentarne mollemente i piaceri in modo estetizzante. La sua non sarà mai una trasgressività fine a sé stessa. Anche in questo caso, come si può notare, c’è stata un’interpretazione strumentale da parte della critica”.

Il 1957 l’anno di pubblicazione di On the road, viene considerato il primo dell’epoca beat. L’anno successivo, nel 1958 – Fernanda Pivano farà tradurre il romanzo per Mondadori. Kerouac arriva nelle librerie italiane in pieno fermento: cambiava lentamente l’abbigliamento, il linguaggio, i gusti musicali e i comportamenti dei giovani. “Sulla strada” sarà subito un grande successo. La punta avanzata di altri materiali “beat” composti di nuova musica e idee: Bob Dylan, Rolling Stones, Beatles, la letteratura di Henry Miller, le teorie di Wilhelm Reich sulla sessualità e il benessere psichico.

Il conformismo italiano – soprattutto quello di matrice cattolica e marxista – non potrà che opporsi con rabbia in un clima culturale pesante, rievocato dalla stessa Fernanda Pivano: “In quegli anni era molto chiara l’ostilità della sinistra italiana verso autori come Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti. Io sono stata anche licenziata dalla Mondadori, dove lavorato come consulente, perché facevo pubblicare solo le opere dei miei amici, quegli autori beat sgraditi all’élite intellettuale di sinistra”.

Jack Kerouac nel mirino di certo intellettualismo italiano

In Italia Jack Kerouac sarà sempre nel mirino di certi ambienti intellettuali. Il critico Vito Amoruso lo taccerà di “egoismo individualistico e antisociale”. E nel 1977, nell’Agenda Rossa curata da Goffredo Fofi e Luigi Manconi, la definizione di Kerouac è da manuale: “Pessimo scrittore, mediocre filosofo e politico qualunquista. I suoi personaggi sono simboli del rifiuto del lavoro, dei valori costituiti, della rispettabilità. Vagabondi eternamente sovraeccitati, rifiutano però, oltre il lavoro e la famiglia, anche l’impegno, l’intelligenza, la lotta”.

Al ceto di stretta osservanza marxista-leninista, quegli “anarchici” irrazionali e individualisti, ma generosi e alla ricerca di una via personale alla spiritualità, apparivano solo come dei nemici di classe. Fernanda Pivano nella prefazione a On the Road li descriveva: “costretti a vivere in una società anonima nella quale non riescono a credere, e pertanto ritengono incapace di rispondere alle loro domande, spesso la sfuggono creandosi una società autonoma, e vivono in piccole bande più o meno segrete secondo un codice primordiale, basato sull’inviolabilità dell’amicizia”.

Céline, Spengler e Pound

Insomma quei ragazzi mal sopportati si erano scelti pure tre riferimenti controversi: Louis Ferdinand Céline, Oswald Spengler ed Ezra Pound. Durante la campagna presidenziale del 1952 vinta da Eisenhower, i beatnik arrivarono addirittura a scrivere “Ez for Pres” – ossia “Ezra Pound come Presidente” – sulla cinta esterna del St. Elizabeth’s Hospital, il manicomio dove il poeta era stato rinchiuso per avere sostenuto il fascismo durante la guerra e dove rimarrà fino al 1958 quando ritornerà a vivere in Italia. Era sicuramente una forma di riconoscenza enorme, oltre ogni scelta politica quella di molti esponenti della beat generation verso Pound. Tanto che Japhy, uno dei personaggi di un altro libro firmato da Kerouac, “I Vagabondi del Dharma”, dirà: “Pound era un buon diavolo, anzi, il mio poeta preferito”.

E nel 1967 Allen Ginsberg venne in Italia per incontrare il poeta americano. C’è una foto scattata da Ettore Sottsass al La Gritta American Bar di Portofino nel settembre 67’ dove c’è anche Fernanda Pivano. Negli stessi anni Kerouac, veniva letto dall’ambiente della destra giovanile più rivoluzionaria e movimentista. Piaceva, quel suo essere “anarchico di destra” che appariva in sintonia con alcune suggestioni di Ernst Jünger e Julius Evola. Fausto Gianfranceschi scrisse nel ’63: “I personaggi di Kerouac – rispondono a una precisa logica che li conduce da una reazione di carattere sociale alla ricerca delle vie dello spirito”.

Un anarchico di destra

Questa attenzione “a destra” è testimoniata nel momento più creativo degli anni Settanta. Sulla rivista “Presenza” del gennaio 1975, Pino Quartana con uno scritto dal titolo esplicito, “Kerouac, l’anarchico di destra”, annotava: “Non sarebbe azzardato riconoscere nella beat generation e in Kerouac in particolare, alcuni dei tratti caratterizzanti anche la destra culturale: rivolta contro il materialismo e il collettivismo, ricerca di valori supertemporali, rivalutazione della tradizione, rifiuto della formule artificiose dei materialismi edonistici di destra e di sinistra e ricerca, al limite ultimo, di una spiritualità con cui riempire il vuoto esistenziale”.

Vincenzo Bovino

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