Livorno, 20 ago – Abbiamo già dato conto della riscoperta delle espressioni artistiche (al plurale) emerse durante il ventennio fascista e di come queste continuino ad accendere il territorio nazionale di mostre, esposizioni, dibattiti.
Abbiamo già parlato di come questa riscoperta passi attraverso una rimozione preliminare, cioè la sterilizzazione dell’opera d’arte, la sua decontestualizzazione rispetto all’ambiente che l’ha generata. La sottrazione di un ingrediente alla ricetta originale, una sofisticazione che ricorda quella operata dalla Feltrinelli nei confronti di Charles Bukowski, le cui Storie di ordinaria follia vennero mutilate — e lo sono ancora — di un solo racconto: Svastica.
L’operazione di rimozione coatta non poteva non avvenire anche a Livorno, dove la riscoperta di Irma Pavone Grotta sarebbe stata impossibile senza la censura del suo curriculum politico. Lei, fervente fiduciaria provinciale dei Fasci femminili e moglie di Dino Grotta, nipote di Costanzo Ciano. Viene nominata al vertice dei Fasci nel 1935, dopo la morte di Emma Gamba Niccolai, impegnandosi nel ruolo a più livelli. Non solo aumenta in poco tempo le iscritte, ma parallelamente porta avanti una determinata invettiva contro l’assenza delle mogli di alcuni gerarchi, i quali non avevano «ancora sentito il dovere di iscrivere le donne della loro famiglia al Fascio femminile».
La militanza politica e le parentele della Pavone sono ‘dimenticate’ nella mostra a lei dedicata. Non un accenno nemmeno nel bel catalogo, dove l’artista viene elevata a icona di ‘donna liberata’ quasi da opporre al clima culturale del periodo, di cui Irma incarnava al contrario ogni aspetto. Così avviene lo sbiancamento delle vesti nere e, una volta normalizzata, Livorno ha potuto celebrare una delle personalità artistiche più complete del suo panorama di inizio Novecento. Artista ad ampio raggio, prima pittrice e acquafortista, poi xilografa, si afferma grazie alla sua verve poliedrica e alla rielaborazione personale di stilemi e influssi differenti.
Irma Pavone Grotta riesce infatti a giocare su più tavoli: quello naturalista, quello rusticano, quello simbolista, quello decò. Gioca carte diverse, a volte sacre, a volte antiche, decorative, a volte macabre, folkloristiche, o decadenti, rubate ad altri tavoli, ad altre piazze artistiche, come quella parigina o est europea o ancora altrove.
Oscilla armonicamente fra il decorativismo cromatico e l’assolutezza del bianco e nero. Riesce a tradurre le inferenze artistiche in un tratto personale ed elegante, aristocratico.
La versatilità di Irma diventa il jolly necessario ai più illuminati promotori della restaurazione del libro illustrato in Italia, ma non impedirà all’artista di maturare in modo lineare. Le opere della Pavone Grotta non si tramutano in torri di Babele, in paesaggi confusi dove convivono troppi stili. Quando approda alla xilografia, lo fa quasi da ortodossa. Si fa ammirare per l’uso rigoroso della sgorbia, nel rispetto completo del supporto ligneo. Nonostante le sue mani conoscano bene penna e pennello, non le mischiano mai con la sgorbia al momento di incidere il legno. Vengono usate prima, nell’ideazione delle stampe, ma poi lasciate riposare.
«Donna dallo stile virile e dalla concezione originale», viene apprezzata anche per la sua riservatezza, per il suo senso di auto-critica che la spinge al continuo miglioramento, per affermarsi con i fatti e non con le parole. Doti che la porteranno a farsi a sua volta promotrice di artiste emergenti, grazie anche ai ruoli ricoperti nei Fasci femminili livornesi.
La mostra che si è tenuta alla Pinacoteca Servolini di Collesalvetti ha dato conto del percorso artistico di Irma Pavone Grotta, attraverso opere che ne evidenziano la ‘rigorosa flessibilità’. Che sia il ritratto di Baudelaire — con il viso incorniciato da un triangolo che anticipa l’impostazione grafica del manifesto di Arancia meccanica di Kubrick — oppure i velieri e i marinai del bagaglio iconografico di un tatuatore. Che siano i mendicanti e gli zampognari disegnati con stile nordico, o le nature morte colorate a tre e quattro legni, o i ritratti femminili ricavati dal chiaroscuro, o gli acquerelli della colonia marina Rosa Maltoni Mussolini di Calambrone. O l’autoritratto irriverente che pare un volto di Tamara de Lempicka che ha trovato la frontalità. Piccoli gioielli sono poi le illustrazioni per due libri: i Sonetti della malinconia del poeta-soldato Vittorio Locchi e Le lucciole del sentiero del già Ministro dell’Istruzione Alfredo Baccelli.
La mostra “Irma Pavone Grotta: l’aristocrazia della linea nel segno de L’Eroica. Dal Simbolismo al Decò”, dopo Livorno è ora visibile alla Palazzina delle Arti della Spezia, che continua a seguire le tracce della rivista che ha rilanciato la xilografia in Italia all’inizio del Novecento. Da quella rivista infatti Irma Pavone Grotta viene convocata per rinvigorirne il ceppo, e lei non delude. Agisce con un vigore tecnico che emerge come un faro dal mare delle sue ambizioni culturali.
Simone Pellico