Roma, 10 ott – È uscito nei giorni scorsi su Netflix “Il Buco – Capitolo 2”, episodio che segue e allo stesso tempo anticipa (no, non è un controsenso ma un’intelligente operazione di marketing) la prima parte della narrazione diretta dal regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia. Presentato al festival internazionale di Toronto sul finire dell’estate 2019, El hoyo – questo il titolo in lingua originale – è stato dapprima distribuito nelle sale cinematografiche iberiche per farsi poi conoscere al mondo attraverso la famosa piattaforma statunitense nel periodo pandemico.
La fossa e la piattaforma
I presupposti delle due pellicole sono pressoché gli stessi. In una prigione strutturata su centinaia di livelli sono presenti, suddivisi in coppie, 666 detenuti. Ad ognuno di essi è stato consentito di esprimere una precisa preferenza culinaria e di scegliere un solo oggetto da portarsi appresso all’interno della particolare galera.
Le celle, una sotto l’altra come in una claustrofobica discesa verso gli inferi, presentano nel mezzo – appunto – un buco. Ovvero la fossa. È qui che ogni ventiquattro ore viene calata la piattaforma, ricco buffet formato proprio dalle stesse pietanze scelte dai protagonisti dell’esperimento sociale. Ogni mese le coppie sono costrette a cambiare casualmente livello: più si scende e meno cibo rimane al passaggio del grande (e tetro) vassoio.
Una critica alla società occidentale?
Tra le leggi da rispettare quella di non fare scorte. Si può consumare l’unico pasto della giornata nei pochi minuti in cui il vitto si ferma al piano assegnato dalla sorte. Più si è vicini al livello zero, maggiore sarà la possibilità di sopravvivere. Senza spoilerare altro sulla trama dei due film – non è questo il punto che ci interessa – il Buco ci mette davanti una serie di quesiti sul moderno mondo occidentale.
C’è chi ci ha visto una critica alla società dei consumi, al capitalismo e alle diseguaglianze sociali che quest’ultimo comporta. Qualcuno ha tirato in ballo anche la religione. Tutto condivisibile, ma – secondo noi – c’è qualcosa di più. In entrambi i lungometraggi abbiamo un freddo sistema amministrativo che da un lato impone severe norme – per quanto distopiche possano essere – e dall’altro lascia un certo grado di libertà personale a una popolazione egoista e atomizzata.
In questo modello di società non c’è un centro, esiste solamente un instabile ordine, falso e apparente, che nel corso dei minuti lascia posto al caos crescente. Quindi alla violenza ferina e insensata. Troviamo un’informe massa umana – condizionata da due opposti, fame e ingordigia – incapace di coordinare il pensiero con l’azione. O è inutile teoria o diventa forza bruta comandata dagli istinti più bassi. Non c’è sintesi, ma solo controproducente estremizzazione in due facce della stessa medaglia.
Il Buco, due film e tante domande
Due film che lasciano lo spettatore con tante domande. Alle quali possiamo però iniziare a rispondere con una “semplice” parola. Aristocrazia, dal greco àristos e kratìa, governo dei migliori. Nella teoria classica, pratica riservata solamente a chi sia in possesso di comprovate doti morali e intellettuali. Cosa (talvolta) diversa dalla reggenza di un solo uomo. Ma anche da quelle dei pochi o del popolo. Ritorno alle virtù, soluzione – anche nelle condizioni più avverse – ai mali spirituali descritti in maniera cruda ma per certi versi veritiera proprio dal Buco. Non saranno quindi né questo sistema né i suoi imbelli “abitanti” a poter riscattare il genere umano. Prima di apparati di potere diversi servono innanzitutto uomini nuovi.
Marco Battistini