Il 15 aprile 1944 l’auto di Giovanni Gentile si avvicinava a casa, alle porte di Firenze. I due gappisti Fanciullacci e Martini attendevano sulla strada con i libri in mano: erano travestiti da studenti, sicuri che il filosofo non avrebbe esitato a fermare la macchina e a rispondere a una richiesta che veniva da giovani. Così infatti accadde: Gentile abbassò il finestrino, dai gappisti partì una gragnuola di colpi. Fu sepolto nel Pantheon intellettuale degli italiani: la basilica di Santa Croce in Firenze, dove ancora giustamente riposa.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di gennaio 2022
L’assassinio più vile
L’accusa che avrebbe dovuto motivare l’omicidio era che Gentile aveva esortato i giovani italiani all’arruolamento nell’esercito della Repubblica sociale, «dunque» era stato il mandante morale delle fucilazioni di coloro che si sottraevano ai bandi di leva. Dopo questa grottesca sentenza, il «processo d’appello» al filosofo si aprì subito dopo la morte. La sensazione di averla fatta grossa, anche nel clima esasperato della guerra civile, dovette sfiorare molti dei componenti del Cln toscano, i quali – con la ovvia eccezione dei comunisti – disapprovarono l’assassinio. Ma un partigiano di ferro come Leo Valiani attesta che gli stessi Togliatti e Gramsci riconoscevano in Gentile il valore di profondo pensatore.
Negli anni Cinquanta ricominciarono in ambito accademico gli studi gentiliani: non era un’opzione culturale scontata per una duplice ragione. Gli ambienti universitari del dopoguerra pullulavano di discepoli del filosofo-ministro, i quali nella grande metamorfosi italiana notata da Churchill nel 1945 avevano una ragione molto concreta per far dimenticare Gentile, e soprattutto il loro essere stati gentiliani… La seconda motivazione è che Gentile aveva suscitato avversione nell’ambiente cattolico non meno che in quello di sinistra.
Al di là delle ideologie
Il riemergere del logos gentiliano è stato lento, ma progressivo nel ripensamento dei più lucidi uomini di pensiero della seconda metà del Novecento. Nicola Abbagnano coglie il tratto romantico del pensiero di Giovanni Gentile, Salvatore Natoli smonta il pregiudizio sul Gentile «provinciale», sottolineandone la dimensione europea, il dialogo implicito con i grandi contemporanei. In verità, considerando che Gentile pose le basi insieme a Tucci dell’Ismeo (l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente), si potrebbe parlare di un’ampiezza universale del suo pensiero, con aperture alle prospettive delle culture orientali. Emanuele Severino coglie nel suo pensiero una delle più incisive espressioni di quel «divenire europeo» culminato nell’era della tecnica (anche se non giurerei che detto dall’assorto cantore dell’immobilità parmenidea questo sia un complimento…). Ed ancora, Sergio Romano ha dimostrato come l’esercizio del potere da parte del filosofo-ministro fu sempre pieno di umanità, di pietas verso tutti i meritevoli: agli antipodi rispetto alla spietatezza dei suoi attentatori… Oriana Fallaci, senza peli sulla lingua, ebbe a dire che «l’assassinio di Giovanni fu una carognata ingiusta e vigliacca».
Per quanto riguarda gli «eredi gentiliani che non ti aspetti», chi scrive ha un ricordo da condividere: nel 1993 Aldo Masullo teneva un corso sul pensiero di Hegel alla facoltà di filosofia dell’Università Federico II di Napoli. Agli studenti che lo ascoltavano parlare dalla cattedra di filosofia morale si mescolavano i giornalisti napoletani: gente dall’aria poco teoretica che ogni tanto faceva lampeggiare i flash. In un momento di particolare crisi della politica napoletana, il Partito democratico della sinistra aveva lasciato intendere di voler sostenere Masullo come sindaco di Napoli. Ovviamente erano giochetti politici: l’«hegelismo al municipio» durò per poco nella città che pure nell’Ottocento aveva visto emergere una classe dirigente in cui destra storica e pensiero hegeliano si intrecciavano (De Sanctis, i fratelli Spaventa ecc.).
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Masullo osservava con disincanto questo turbinio di politici e giornalisti attorno a lui. Poi, dopo che in una lezione aveva calcato un po’ la mano sul concetto hegeliano di «Stato etico», sollecitato a ricordare quale fosse stata la sua formazione giovanile, in via confidenziale, si abbandonò a un amarcord in cui emergevano le figure di Giovanni Gentile e Ugo Spirito, i temi del corporativismo, dell’idea sociale della «sintesi» o «terza via» e di tutto ciò che, prima di diventare un comunista nel dopoguerra, lo aveva connotato come «corporativista impaziente».
Giovanni Gentile da martire a santino
Dopo questa rassegna di autorevoli riconoscimenti della grandezza di Gentile, ci è concesso dire che il suo valore avrebbe potuto essere maggiormente considerato in quell’area che faceva del Ventennio e dei suoi protagonisti il riferimento prioritario? La disputa tra «gentiliani» ed «evoliani» vide col passare del tempo diventare sempre più evanescente il riferimento al filosofo dell’attualismo: Gentile era il martire che era stato assassinato dai partigiani, ma il suo pensiero appariva forse criptico e il suo linguaggio plumbeo. I giovani che negli anni Settanta affrontavano gli anni più duri della militanza sentivano molto di più il fascino del mito e della tradizione secondo la lezione di Evola (o di monsignor Lefebvre). Sintomatico di questo allontanamento fu il giudizio di Adriano Romualdi, che vedeva in Genesi e struttura della società un’opera situata, col suo «umanesimo del lavoro», sul piano inclinato che conduce al comunismo, nella cui area, concludeva Romualdi, «si collocano tutti i discepoli di Gentile che contano qualcosa»: chiaro riferimento a Ugo Spirito.
Eppure in Gentile i giovani dell’area «nazionale» avrebbero potuto trovare un quadro di idee che individuava lo spirito non in un passato atemporale, bensì nel corso della storia, della nostra storia, ricucendo in un discorso coerente le fasi culminanti della civiltà italiana: le radici greco-romane della filosofia e del diritto, lo spirito della corte di Federico II e il messaggio di Dante, il Rinascimento e il Risorgimento. La stessa «questione cattolica» si stemperava in Gentile evitando le unilateralità dell’esaltazione fideistica (come nella destra cattolica), o di un’impossibile espunzione dell’esperienza bimillenaria dell’Italia cristiana (come nella destra neopagana): il cattolicesimo veniva concepito come parte integrante, ma non «esclusiva», del cammino dello spirito.
Un gigante da riscoprire
Per riconsiderare queste tematiche gentiliane è davvero una coincidenza preziosa che di recente siano state pubblicate due antologie del filosofo: Patria, nazione, fascismo (edizioni Mursia) e Ritrovare Dio: scritti sulla religione (delle Mediterranee). La «sincronicità» di queste due edizioni è confermata anche dal fatto che entrambi i volumi si corredano dell’introduzione di Hervé Antonio Cavallera, professore ordinario di Storia della pedagogia nell’Università del Salento, oggi il maggior conoscitore di Gentile, curatore della sua opera omnia. Le due antologie sfatano un mito: la pesantezza del pensiero gentiliano. Certo sono scritti brevi, in cui prevale l’intento divulgativo dell’autore (che non disdegnava, soprattutto a cavallo della Grande guerra, di intervenire sulle questioni d’attualità sui giornali), ma in questi scritti brevi si ritrovano i leitmotiv del maestro dell’attualismo. In Patria, nazione, fascismo emerge il forte legame col…