Roma, 6 feb – Recentemente il magazine statunitense The Atlantic (qui) ha pubblicato una storia razziale della barba, a firma Sean Trainor. Quello che può sembrare uno scherzo di cattivo gusto è invece una ricostruzione seria e circostanziata che vorrebbe indurre i maschietti a rivalutare attentamente la moda della peluria sul viso e la cura nel vestirsi in stile retrò. Il sito tutto maschile The Spearhead non ha fatto mancare la sua critica alla prospettiva del Trainor e tutto sommato può valere la pena spendere due parole sulla questione anche qui in Italia, visto il clima che si respira da un po’ di tempo a questa parte.
In sintesi l’articolo dice che l’attuale moda delle barbe fluenti e dei mustacci virili, accompagnata dal gradimento per i negozi di vestiario vecchio stampo e quant’altro, deve fare i conti con la recente storia della barba in America. Per il Trainor la barba è stata il simbolo per decenni, se non per secoli, dell’oppressione razzista e maschilista dell’uomo bianco americano. Fin dal 1800 la grande maggioranza dei barbieri era afro-americana, ex schiavi che intraprendevano una professione poco amata dai bianchi. Il loro ruolo richiedeva grande abilità manuale nel taglio e nella cura estetica, ma anche attenzione e discrezione nell’affrontare discussioni di ogni genere con clienti esigenti e talvolta ricchi. Anche l’ambiente doveva essere curato nei minimi dettagli, come in qualche modo rammentano alcuni negozi vintage di oggi. L’autore non manca di ricordarci come lo sventurato barbiere, in ossequio alle norme sulla separazione razziale, non potesse intervenire nel caso in cui scoppiasse una rissa tra clienti ubriachi o alterati nella sua bottega.
D’altronde la professione del barbiere nel tempo sembrò rendere bene e i sacrifici in alcuni casi vennero comunque ben ripagati dalla conquista di una buona posizione sociale e professionale da parte di artigiani afro-americani. Se la barba era in precedenza il segno distintivo dei “signori” e dei “padroni” bianchi, intorno al 1850 per questioni igieniche e per paura di aggressioni da parte di barbieri violenti, il ruolo di queste botteghe finì in secondo piano e per un po’ si preferirono i volti ben rasati. La barba da avventuriero e “conquistatore” era diventata affare privato e per pochi e la rasatura avveniva nella toeletta di casa, con tutti i rischi connessi alla poca perizia e a rasoi affilatissimi.
Nella seconda metà del 1800 le barbe si riaffermano nella società e nella cultura americana, anche attraverso il vittoriano “The beard and moustache movement”. Gli americani iniziarono a considerare le barbe come un simbolo distintivo e d’orgoglio al cospetto degli immigrati sbarbati e spaesati che giungevano in quel continente in cerca di impieghi di basso livello. Inoltre, la barba divenne il simbolo di rivendicazione di una mascolinità messa in dubbio anche tra le mura domestiche, dove le donne iniziavano gradualmente a ridiscutere i ruoli familiari. La barba in America divenne insomma, sul principio del 1900, un baluardo di virilità per gli americani bianchi che si sentivano in qualche modo sempre più sotto scacco da vari strati sociali. In quel periodo, uno scritto anonimo di una donna sulle “barbe” (1856, New York Tribune) riassunse così la sua visione della cosa: “bearded races are the conquering races”. Non c’è bisogno di traduzione.
Con questa genealogia della barba, Sean Trainor vuole indurre a riflettere sul fatto che la moda attuale della barba che attraversa vari stili – dagli hipster al look anni ’30-’40 – non è un qualcosa di innocente ma che è legato in tempi recenti alla vicenda del razzismo e della discriminazione. Gli uomini farebbero allora meglio a riflettere su cosa è il caso di togliere dalla peluria di cui vanno così orgogliosi. Devono sapere che indossano un pericoloso simbolo distintivo.
Fin qui, più o meno, il discorso del giornalista americano. Per quello che può riguardare la realtà nostrana, si possono avanzare alcune brevi riflessioni.
È in corso da tempo un attacco a ogni simbolo di virilità e mascolinità e alcune cariche istituzionali stanno compiendo i passi giusti al fine di castrare definitivamente gli uomini sin nella culla. Non sarebbe da stupirsi se a questa idea della barba come simbolo del “padrone” o del “conquistatore bianco” si desse in qualche modo eco e seguito anche in Europa. D’altronde quei beceri razzisti dei Greci sostenevano che ogni uomo avrebbe dovuto lasciar crescere la barba: avrebbe reso ancor più bello il bello, e più temibile il brutto. E come dimenticare le invasioni barbariche (Goti e Longo-bardi) che rinnovarono la cultura europea in un momento di decadenza o le orde vichinghe sciamanti in mezzo emisfero settentrionale intorno all’anno 1000? Si tratta di eredità culturale o obsoleta anticaglia?
La cinematografia oggi propone in alcuni casi dei modelli inattuali, com’è il caso della serie Vikings, Trono di Spade o l’estetica dell’attore Tom Hardy. Barbe ed esaltazione della virilità vanno di pari passo, ma si aggiunge una cosa che i critici non colgono: lo stile. Non c’è mascolinità che tenga se non è accompagnata da un adeguato stile, da una tenuta esteriore e interiore che rifletta le equilibrate virtù dell’uomo integro: onore, autocontrollo, dovere.
A quella che sarà tutto sommato una moda passeggera, da tempo fa da contraltare nell’industria del fashion la propaganda di uomini ben depilati, de-mascolinizzati e disinteressati alla distinzione di genere e di ruolo. Quando la marea del vestiario vecchia scuola e del look irsuto si sarà ritirata, forse della barba resterà solo l’immagine distorta e manipolata di un simbolo di oppressione e tracotanza virile made in USA.
Francesco Boco