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L’estetica contro la globalizzazione. La rivoluzione umanista parte dall’Italia

by Valerio Benedetti
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rivoluzione umanista

Roma, 7 nov – Sarà l’Italia a salvare il mondo dalla crisi cronica in cui è sprofondato? Secondo Romano Benini, la risposta è senz’altro positiva. Benini è professore straordinario di Sociologia del welfare presso la Link Campus University di Roma, nonché docente di Sociologia del Made in Italy presso l’Università «la Sapienza» di Roma. Giornalista economico, è inoltre autore de Il posto giusto, il programma di Rai3 su formazione e mercato del lavoro. Benini ha da poco pubblicato la sua ultima fatica, Rivoluzione umanista: la cura italiana al disagio globale (Donzelli). Si tratta di un’opera densa, frutto di anni di ricerche e riflessione. Le tesi qui esposte sono coraggiose e ben argomentate. Ma in che cosa consiste questa «rivoluzione umanista», di chiara marca italiana, in grado di superare le storture del mondo a egemonia anglosassone? Lo abbiamo chiesto direttamente all’autore.

La rivoluzione umanista di Benini

La globalizzazione a trazione neoliberale e turbocapitalista sta fallendo. Era inevitabile?
«Ci tengo a precisare che, per diagnosticare il fallimento della globalizzazione turbocapitalista, non serve affatto un’analisi faziosa: io parto da una considerazione oggettiva, quel modello è chiaramente fallito. È fallito perché è un sistema che crea forti disuguaglianze socioeconomiche, e la disuguaglianza non può che creare continue crisi. Questo è un sistema in crisi da decenni, e il turbocapitalismo ha semplicemente agito da acceleratore».

Nonostante l’«etica dell’efficienza e della quantità» imposta dal modello anglosassone, l’Italia ha continuato a tutelare la sua cultura e il suo stile di vita. Come si spiega questa resistenza?
«È da specificare che questo non è solo il modello dominante, ma anche e soprattutto il modello delle nazioni vincitrici della Seconda guerra mondiale. Ciò vuol dire che, a partire dagli anni Cinquanta, questo è l’unico modello esistente. In tal senso l’Italia è stata continuamente sotto pressione: in televisione, e ovunque nella nostra quotidianità, vediamo un modello che non è il nostro. Inoltre, rispetto alle nazioni asiatiche, che hanno opposto una fiera resistenza al modello occidentale e angloamericano, noi europei siamo stati molto più accondiscendenti. Però, ecco, in Italia ci sono tremila anni di civiltà che non si possono cancellare tanto facilmente. Noi sottovalutiamo troppo la nostra potenza culturale. Una potenza che un autorevole istituto statunitense ha anche registrato, sebbene per gli americani queste cose contino poco o nulla. Eppure, è proprio da qui che noi dobbiamo ricostruire, ripartendo dalla nostra forza culturale. D’altra parte, in Italia c’è una tradizione, sia di destra che di sinistra, che ha fortemente criticato lo stile di vita americano. L’uomo, insomma, non è solo un consumatore. E questo è vero in Italia più che altrove».

Romano Benini

In effetti, nel Suo libro l’Italia emerge come un baluardo e, al contempo, come l’avanguardia di un’«etica dell’estetica» che prima ha inaugurato la modernità, e che ora può operare una vera rivoluzione umanista. Il modello italiano può davvero battere il modello anglosassone?
«Io penso che dobbiamo essere consapevoli che con il modello angloamericano non si va da nessuna parte. Per questo sono molto critico con la destra liberale, certo, ma anche con quella sinistra liberale che continua a proporci un modello fallito. Ormai, infatti, non è più neanche un modello, non è più valido. La crescita che propone è diseguale. Ma soprattutto si guarda sempre al Pil, e non al benessere dei cittadini, alla qualità della vita. Per gli angloamericani contano più la tecnologia e la produzione. È la differenza tra “cultura” e “civilizzazione”, come avevano capito già nella Germania degli anni Trenta Spengler e Sombart, ma anche Adorno e la Scuola di Francoforte. Per la civilizzazione anglosassone, il profitto viene prima dell’uomo, e invece noi dobbiamo rimettere l’uomo al centro. Lo sviluppo economico che non è al contempo sviluppo sociale, infatti, non funziona e non può funzionare. La risposta però – è importante sottolinearlo – non è la “decrescita felice”. La risposta è un’altra. Il modello italiano è una delle poche esperienze dove la cultura produce economia: facciamo business con il cibo, i vestiti, l’architettura e così via. È la bellezza che può salvare il pianeta, e l’Italia è il centro di questa bellezza. La differenza tra modello europeo e angloamericano è tutta qui. L’Occidente, peraltro, non esiste, è un concetto prodotto dalla Seconda guerra mondiale: esistono l’Europa e l’Angloamerica. Anche alcuni americani – perlomeno quelli più colti e consapevoli – se ne sono accorti, come per esempio Stiglitz. Anche per loro noi siamo i custodi di una tradizione ancora viva. Come disse Gustav Mahler, “tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”».

Però anche l’Europa è divisa tra il Nord austero e il Sud abituato a crescere con il deficit…
«Sicuramente c’è una differenza tra l’Europa cattolica e quella protestante. Del resto, la cultura americana nasce dal puritanesimo, ossia una corrente radicale del protestantesimo. È lì che ogni debito viene visto come una colpa, e la stessa bellezza è considerata una tentazione del demonio. C’è un eccesso di protestantesimo in molte teorie economiche oggi dominanti, questo è evidente. E invece, nella nostra cultura, il povero non è gravato dal senso di colpa, come nella cultura protestante. E poi, l’Italia ha sì un debito pubblico alto, ma anche tanta ricchezza privata. Il debito pubblico, insomma, non può essere il parametro economico decisivo. La differenza la fa la crescita. Il Giappone ha un debito pubblico altissimo, ma continua a crescere, mentre noi italiani, pur non facendo deficit da anni, non cresciamo più. Il dogma del controllo del debito, in sostanza, è controproducente».

Lei parla dello «stile italiano come terapia per il mondo». Da dove l’Italia può far partire questa rivoluzione umanista?
«Da ciò che la distingue dal resto del mondo. Se non sai chi sei, d’altra parte, fai fatica anche a rapportarti con le altre culture. Gli italiani devono fare gli italiani, produrre quello sanno fare (macchine, vestiti, cibo ecc.). Noi siamo il quinto Paese per surplus commerciale, il secondo in Europa dopo la Germania. Questo vuol dire che il mondo vuole la nostra bellezza, e perciò dobbiamo sia trasmetterla ai giovani, sia averla dentro di noi. Se non hai la bellezza dentro, non puoi più produrla. Noi dobbiamo dare bellezza al mondo, altrimenti il mondo muore. Nelle scuole va quindi insegnata l’italianità, perché l’italianità ti apre al mondo, invece di chiuderti, come dice qualcuno. Questo vuol dire che la scuola deve educare al pensiero critico e non conforme, invece di omologare gli studenti. Che un liceale italiano si senta oggi più vicino a un coetaneo cinese che a suo padre, ecco, questo non va bene: è una stortura dei media, ed è pericolosa, perché rompe il legame tra le generazioni. Inoltre, la divisione tra destra e sinistra ormai è superata: la divisione vera è tra chi critica il modello tardo-liberale e chi invece sostiene un modello che ha colonizzato l’Europa».

Valerio Benedetti

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