Roma, 12 set – Il volume Covid-19 vs. Democrazia, uscito di recente per Edizioni Scientifiche Italiane e curato dal prof. Daniele Trabucco, professore associato di diritto costituzionale presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona, raccoglie una serie di interventi di alto spessore intellettuale tesi a inquadrare gli aspetti giuridici ed economici della prima fase dell’emergenza sanitaria degli ultimi mesi. Com’è ovvio ed evidente le decisioni – e le non decisioni – prese nei decisivi frangenti iniziali della crisi sanitaria prolungano i propri effetti all’oggi e gravano sui prossimi mesi con una serie di prospettive tutt’altro che tranquillizzanti. Abbiamo pertanto chiesto al prof. Trabucco di approfondire alcuni aspetti giuridici e politici di quanto avvenuto, così da poter affrontare gli eventi futuri con maggior consapevolezza.
Nel suo importante saggio Il principio di legalità formale e sostanziale ai tempi del Covid-19 insiste con grande chiarezza sulla indeterminatezza assoluta del potere conferito per decreto-legge e attraverso i Dpcm (Decreti del presidente del Consiglio di ministri). I vizi formali che lei evidenzia nella stesura dei vari decreti sembrano produrre dei veri vizi sostanziali, che causano in ultimo un vulnus a livello procedurale. Dal suo punto di vista, quindi, siamo al cospetto di un abuso di attribuzioni da parte del Presidente del Consiglio?
Noi abbiamo assistito, e continuiamo ad assistere, ad un utilizzo illegittimo del decreto-legge, benché non ci sia stato, almeno fino ad ora, alcun pronunciamento da parte del giudice delle leggi. Questo, com’è noto, è un provvedimento provvisorio avente forza di legge adottato dal governo della Repubblica in presenza di tre presupposti giustificativi indicati nel comma 2 dell’art. 77 della Costituzione repubblicana vigente: 1) straordinarietà, 2) urgenza, 3) necessità. Pertanto, quando si ricorre a questa fonte-atto, è logico che lo si fa per fronteggiare immediatamente la situazione emergenziale che si è venuta a determinare. In ragione di ciò il decreto-legge deve contenere misure non solo omogenee, ma anche immediatamente applicabili. A coloro i quali obiettano che questi due aspetti non sono previsti nel Testo fondamentale del 1948, vorrei ricordare che la Corte costituzionale, a partire dalla storica sentenza n. 22/2012, ha precisato come essi siano impliciti, o meglio presupposti, nella ratio della norma costituzionale sopra citata. Nel caso, invece, del contenimento dell’agente virale Covid-19, solo una parte delle misure è risultata di subitanea applicabilità. Per altre è stato necessario (e lo è anche ora) ricorrere ai noti decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, prof. avv. Giuseppe Conte, atti formalmente amministrativi ma sostanzialmente normativi, ai fini della loro attuazione o implementazione. In altri termini, si è assistito all’utilizzo di decreti-legge «ad efficacia differita» che costituiscono una contraddizione proprio in ragione della peculiare natura della fonte. Eppure, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al momento della emanazione e prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei decreti-legge, poteva esercitare un controllo preventivo (precedente la loro entrata in vigore) che la Corte costituzionale ha definito di «intensità almeno pari» (sentenza n. 406/1989 Corte cost.) a quanto avviene in sede di promulgazione di una legge ordinaria dello Stato ex art. 74 della Costituzione. Cosa che non è avvenuta.
Un fattore non secondario dell’indeterminatezza assoluta del potere conferito si esplica quindi nel caos di attribuzioni e competenze, che sembrano talvolta travalicare le funzioni normalmente assegnate. Questa confusione di prerogative, con il relativo conflitto tra organi istituzionali, è secondo lei il prodotto di un diritto che non solo si è distanziato dal rispetto delle fonti primarie, ma che si è anche distaccato da quella concretezza che suggerirebbe di avere maggior riguardo della tenuta del tessuto sociale e politico della nazione?
Il proliferare di ordinanze di presidenti delle giunte regionali, di ordinanze sindacali, di decreti del presidente del Consiglio dei ministri ha solo creato caos e confusione nei cittadini. Anzi, mi sento di affermare che proprio il cortocircuito istituzionale, favorito dallo stesso esecutivo a partire dal decreto-legge n. 19/2020, indirettamente ma prepotentemente, ha inciso sul tessuto sociale e politico della nazione. Supermercati chiusi la domenica in Veneto, ma aperti nella contermine regione Emilia-Romagna. Nella gestione dell’emergenza si è palesata e si palesa la debolezza dello Stato e la sua incapacità di essere autorevole e credibile. Davanti ad una diffusione dell’agente patogeno su tutto il territorio nazionale, la competenza doveva e deve essere solo statale. Entra in gioco, infatti, la materia della profilassi che, ai sensi del comma 2 dell’art. 117 della Costituzione, rientra nella potestà legislativa esclusiva statale la quale, in virtù del criterio della prevalenza elaborato dalla giurisprudenza costituzionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, «assorbe» ogni altra competenza sia legislativa, sia amministrativa, delle Regioni a prescindere dal principio di leale collaborazione. Questo, beninteso, non significa limitare lo spazio di intervento di regioni e comuni, ma prendere atto che lo stesso, come stabilisce l’art. 32 della legge ordinaria dello Stato n. 878/1978 istitutiva del Servizo sanitario nazionale, va esercitato unicamente quando l’emergenza è confinata all’interno del solo territorio regionale e comunale. Certo, se poi guardiamo l’incapacità politica e tecnica di chi è al governo, della maggioranza parlamentare che lo sostiene e di un’opposizione in buona parte assente e poco propositiva, i dubbi di una gestione statale aumentano. Questa, però, è la conseguenza di quella che il filosofo canadese Alain Deneault definisce la mediocrazia, la nuova e deleteria frontiera della partitocrazia che aumenterà nel caso in cui vincessero i sì al referendum costituzionale avente ad oggetto la legge di revisione inerente alla riduzione del numero dei parlamentari.
Il problema della giurisprudenza italiana, a quanto capisco, è che non contempla, per scelta dei costituenti, una formalizzazione dello stato d’eccezione. La cosa che più si avvicina ad esso è lo Stato di guerra configurato dall’art. 78, che comunque non è stato preso in considerazione dal governo. Lo spunto fornito dall’ordinamento spagnolo che prevede tre gradi emergenziali è a questo proposito interessante, in quanto la fase critica non limita né sospende le responsabilità del governo né le normali procedure parlamentari. Quali ritiene dovevano e dovrebbero essere i principi guida attraverso cui determinare un approccio realistico, operativo ma al contempo formalmente e sostanzialmente corretto allo stato d’emergenza? Può lo stato d’emergenza avere una durata indeterminata e dunque delle ricadute sulla società non prevedibili senza che ciò comporti una responsabilità civile e penale per i decisori, fatta salva l’imprevedibilità del momento iniziale?
Nella nostra Costituzione, a differenza di altre (Spagna, Ungheria, Russia), non è mai stato costituzionalizzato lo stato di emergenza la cui dichiarazione da parte del Consiglio dei ministri, con apposita deliberazione, è contemplata da una fonte primaria, ossia il d.lgs. n. 1/2018 (Codice della Protezione Civile). Mi pare una forzatura, sebbene una parte della dottrina costituzionalistica lo abbia suggerito, richiamare lo stato di guerra di cui all’art. 78 e il conferimento al governo, ad opera del parlamento, dei «poteri necessari» (non dei pieni poteri). L’approccio corretto, a mio modo di vedere, era l’utilizzo dei soli decreti-leggi che dovevano contenere misure immediatamente applicabili, precise, puntuali evitando il ricorso, che peraltro continua, ai Dpcm i quali non sono sottoposti ad alcun controllo preventivo di legittimità. In questo modo si sarebbe consentito alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica una «partecipazione attiva alla gestione dell’emergenza». Solo nella fase più critica e se ritenuto necessario, sarebbe stato da prendere in considerazione l’istituto della reiterazione dei provvedimenti provvisori aventi forza di legge: un’ipotesi esclusa dalla Corte costituzionale con la storica sentenza n. 360/1996, ma non in senso assoluto. Essa avrebbe dato al governo il potere di modulare le misure a seconda dei dati e, dunque, dell’intensità dei presupposti di straordinarietà, urgenza e necessità. Quanto allo stato di emergenza di rilievo nazionale, ad oggi prorogato fino al 15 ottobre 2020, l’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 1/2018, stabilisce che «la sua durata «non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi». Trattandosi, però, di una disposizione normativa contenuta all’interno di un atto normativo avente forza di legge, quale un decreto legislativo delegato, nulla potrebbe vietare in futuro al governo della Repubblica l’adozione di un decreto-legge, ossia una fonte primaria di pari livello nella gerarchia delle fonti, per modificarne la durata. Da ultimo, in merito al profilo della responsabilità, ricordo che quando l’esecutivo adotta un decreto-legge lo fa, come recita l’art. 77, comma 2, Cost. «sotto la propria responsabilità»: penale, civile, erariale etc… Ovviamente è necessario farla valere e provarla nelle sedi giudiziarie competenti.
Si è molto parlato di un presunto “diritto alla salute” o “diritto alla vita” che dovrebbe essere l’interesse prevalente in una situazione di necessità come quella presente causata da un’emergenza sanitaria. Benché un tale diritto risulti garantito dalla Costituzione italiana, bisogna tuttavia rilevare che esso è pur sempre affiancato da molti altri diritti inalienabili, quali quello al lavoro, allo studio, alla libertà di culto ecc. Innalzare un singolo diritto su un piano di assoluta preminenza rientra secondo lei nella “normalità” di uno stato d’eccezione? Può cioè una condizione di urgenza e necessità giustificare l’assoluta prevalenza di un singolo diritto su tutti gli altri o non si rischia così di incorrere in una sorta di “tirannia di un diritto”? Non sarebbe più giusto, semmai, parlare di un “dovere di curare”?
La domanda è molto intelligente e provocatoria al contempo. Potremmo dire che il «dovere di curare» è l’altra faccia del diritto alla salute, o meglio ne è la conseguenza. Venendo alla limitazione di alcuni diritti costituzionali, se questa è giustificabile in una dialettica di bilanciamento con la tutela collettiva del diritto alla salute ex art. 32 Cost.), non si possono tacere le compressioni assolute di altri diritti: penso alla sospensione delle cerimonie religiose e di quelle civili, nonché alla chiusura di numerose attività di impresa che non rientravano nei c.d. codici ATECO. La Corte è stata molto chiara sul punto (sentenza n. 67/1990): anche quando un diritto assume una prevalenza rispetto agli altri per l’importanza e la delicatezza dell’interesse tutelato che vi è sotteso, ciò non può mai comportare il venir meno della «minima operatività» degli altri diritti che deve sempre essere garantita. Per molti diritti questo non è avvenuto con la conseguenza dell’instaurarsi un vero e proprio diritto emergenziale che va sempre più consolidandosi sfruttando la paura del contagio.
Il passo successivo di questa sorta di “dittatura di un diritto” giustificherebbe per certi versi quello che nel volume viene descritto come un capovolgimento della prassi parlamentare, al punto che più d’un osservatore ha denunciato una vera e propria esautorazione del ruolo del parlamento e delle sue funzioni, con il governo che si assegna competenze non sue. Com’è accaduto che il parlamento abbia completamente perduto la forza di partecipare alla fase decisionale? Può lo stato di necessità giustificare in qualche modo la “rapidità” di decidere superando le lungaggini burocratiche? E ancora, può darsi che l’impotenza del parlamento e il silenzio dell’opposizione siano nei fatti la prova di un processo di decadenza della rappresentanza parlamentare che in una situazione di crisi esplode in tutte le sue criticità?
In un contesto di forte crisi della rappresentanza politica sia per l’intromissione sempre più pregnante dell’Unione Europea grazie alla c.d. «teoria dei poteri impliciti» di elaborazione giurisprudenziale, sia perché molte decisioni sono state sottratte al decisore politico causa il proliferare delle autorità amministrative indipendenti, l’emergenza da Covid-19 ha portato ad una ulteriore marginalizzazione del parlamento. La drastica riduzione dell’attività parlamentare, soprattutto nella fase più acuta, ha evidenziato come, in una situazione così eccezionale e grave in cui è in certa misura inevitabile la concentrazione dei poteri in capo al governo, sia quanto mai necessario che le due camere ne controllino e indirizzino l’operato, specialmente in relazione alle sensibili limitazioni ai diritti fondamentali introdotte, così da mantenere inalterato l’equilibrio tra i poteri intrinseco ad ogni forma di governo. Il ritenere i parlamentari impossibilitati ad arrivare a Roma come «in missione», l’utilizzo di alcune forme di timida digitalizzazione, la valorizzazione del «parlamento in commissione» etc. hanno ridimensionato prepotentemente la fisicità quale elemento fondamentale ed ineludibile della rappresentanza politica. Se a questo aggiungiamo la questione di fiducia (legittima, ma politicamente discutibile) sui disegni di legge formale di conversione dei decreti-leggi, non è da meravigliarsi se l’intera determinazione dell’indirizzo politico sia stata e sia anche ora unicamente nelle «mani» del governo. Quanto questo ha indebolito la forma di governo parlamentare delineata nella parte II della Costituzione mi pare sia sotto gli occhi di tutti. Infine, la «parlamentarizzazione» dei Dpcm, prevista dal c.d. emendamento Ceccanti introdotto in sede di conversione in legge formale del decreto-legge n. 19/2020, costituisce una «parvenza democratica» la quale non ha restituito alcuna centralità all’organo costituzionale titolare della funzione legislativa. Essa consiste in un obbligo di informativa sui suoi contenuti da parte del presidente del Consiglio dei ministri o di un ministro da lui delegato funzionale alla possibile adozione di meri atti di indirizzo, rilevanti sul piano politico ma giuridicamente non vincolanti. Atti, peraltro, inutili, visto che la maggioranza parlamentare ha sempre difeso l’operato del Governo Conte II.
Vorrei concludere con una provocazione, citando un autore a noi caro. Il costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde a metà anni ’70 ha parlato esplicitamente di crisi dello Stato liberale, dovuta all’incapacità di tenere fede alle premesse su cui si fonda. Nel suo saggio Stato, Costituzione e democrazia affermava: «Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà. Da una parte, esso può esistere come stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall’interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall’omogeneità della società. D’altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali». Dunque, il conflitto decisivo è tra libertà personale e sicurezza collettiva. Un problema che in questo periodo emerge con grande evidenza. È un azzardo dire che la crisi acuta dello stato liberale si innesca in Italia? Quale futuro vede per lo Stato? Le sfide presenti e future non pongono davanti alla necessità di una nuova costituente che affronti le contraddizioni e i cambiamenti dell’epoca?
Ernst-Wolfgang Böckenförde è stato un «profeta» inascoltato. Nell’opera da Lei citata egli mette in evidenza tutte le contraddizioni dello Stato liberale e delle costituzioni che ne sono l’espressione. Il suo «paradosso», come è stato definito, dimostra il carattere modulare degli ordinamenti costituzionali contemporanei. Da una parte, fondandosi sulle costituzioni scritte e sul costruttivismo politico, essi (gli ordinamenti) sono costretti a concedere quelle libertà «fameliche» quali manifestazioni dell’autodeterminazione assoluta dell’individuo, o meglio del suo effondersi spirituale per dirla con Mounier (cfr. Emmanuel Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria: lo Stato liberale non vede le persone, ma soggetti monadici, atomizzati, economici), dall’altro non possono rinunciare al comando autoritativo in quanto garante di quelle libertà. Da qui, allora, la necessità che le istituzioni politiche «democratiche» non si reggano più su se stesse, sulle libertà e sui principi di derivazione positivistica o nate dal continuo bilanciamento quale metà valore assoluto delle democrazie occidentali «procedurali». Esse richiedono un “qualcosa di irrinunciabile” oltre il campo politico: un ordine ontologico dato, accessibile alla ragione, di cui la singola persona è riflesso. Quest’ordine ha sempre resistito a tutte le obiezioni ed a tutte le negazioni con cui il pensiero contemporaneo l’ha sfidato per negarlo. Per farlo, infatti, bisognerebbe dimostrare che l’uomo non ha una sua propria natura che lo spinge spontaneamente verso un determinato fine e che è per lui indifferente essere ciò che è, o meglio che gli è indifferente tendere al proprio bene o distruggersi (cfr. Antonino Poppi, Per una fondazione razionale dell’etica. Introduzione al corso di filosofia morale, San Paolo, 1989, pp. 46-47). Un’impresa ardua..
Francesco Boco
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