Roma, 2 dic – Il politicamente corretto si vorrebbe sempre scientifico, rischiaramento illuminista che illumina il linguaggio carico di pregiudizi irriflessi del volgo. E invece, a ben vedere, è proprio l’isteria per l’igiene linguistica che si rivela una vera e propria superstizione moderna. La terminologia legata alla definizione delle popolazioni zingare ne è un esempio.
Andate in un talk show a pronunciare la parola “zingari”, sparate un titolo in cui compaia il termine: il processo politico sarà pressoché istantaneo. Parlare di “zingari” richiamerebbe infatti i peggiori orrori del Novecento e bla bla bla. Dovremmo piuttosto adeguarci a complicate circonvoluzioni lessicali o riferirci ai “rom, sinti e camminanti” (“camminanti”?!). Ora però arriva Guido Ceronetti, su Repubblica di venerdì 28 novembre, a scardinare il pregiudizio politicamente corretto. “Io vorrei sradicare dall’uso pubblico vulgato l’insulso Rom e ristabilire il perfetto italiano zingari”, scrive senza mezzi termini lo scrittore all’inizio di un dotto pezzo volto a ristabilire il senso linguistico delle cose.
L’intellettuale spiega che “il più lontano documento di presenza balcanica di alcuni atzincani (nome assunto nel transito greco) è di un laconico monaco georgiano che li descrive come ‘ladri e indovini’. Abbiamo scarse smentite di queste loro caratteristiche etiche nel tempo, e il documento citato, del Monte Athos, è dell’anno Mille”. Non solo. Ceronetti affonda: “Posso ziganeggiare a lungo, rivoltando letture e memorie, e provare che il termine Rom, volendo designare una comunità zingara, è del tutto inutilizzabile. È improprio e di uso limitato nella loro stessa lingua. Traducibile con maschio, marito, genericamente uomo, la nostra eufemizzazione forzata è, nell’ostinarsi a ruttare Rom Rom, di una madornale insipienza. Se poi viene chiamata Rom una donna (romnì) sarebbe come dire che la regina Cleopatra è di genere maschile e Venere si è riinventata gli ormoni”.
Poco aggiornato sulle novità “scientifiche”, Ceronetti non sa che affermare che Cleopatra era maschio o comunque avrebbe potuto diventare tale solo volendolo oggi non farebbe affatto scandalo. Ma andiamo avanti. “In Italia (a Roma i primi gitani sono segnalati dal 1422 e subito, presentandosi come cristiani perseguitati in Egitto, ottennero una bolla papale di benevolenza da Martino V), il loro nome fu a lungo incerto, per lo più proveniva dal greco; cingàni, atzingàni, tzigani, egiziani; alla fine prevalse la derivazione dal tedesco Zigeuner, italiano zingari. Non li chiamiamo Tzigani, come in Francia, perché da noi il meraviglioso tango ‘Violino tzigano’ evoca musica e orchestre della ‘dolce terra d’Ungheria’ ma a un secolo dalla migrazione europea cingàni era il nome più diffuso, specie nel nord-est e nei domìni veneziani”.
Ceronetti arriva persino a constatare quell’ovvio di cui è obbligatorio tacere, ovvero che oggi l’economia legale non è esattamente al centro delle occupazioni delle comunità zingare: “La spaventosa strage mondiale di mestieri ereditari, oggi con pochi superstiti ha tolto agli tzigani sedentari i redditi più onesti (calderai, ramaioli, impagliasedie, maniscalchi, fabbri di forgia, lustrascarpe, aurari o setacciatori d’oro) e accresciuto il numero dei nomadi, dediti alle attività illegali”. E “sui diritti delle donne, stendiamo un velo”. Che tutto questo venga detto su Repubblica ha in effetti del miracoloso. Ma qui giova ricordare che Ceronetti già qualche anno fa era finito nel mirino della Ghepeù buonista per un articolo sulla Stampa in cui commentava l’assassinio di don Renzo Beretta, il “prete degli immigrati” accoltellato da un marocchino, scrivendo di essere “tentato di pensare che la coltellata assassina punisca in lui la misura varcata, un eccesso di benevolenza che finisce per essere colpa” e che “l’uccisione del povero prete di Ponte Chiasso dovrebbe disarmare lo zelo piuttosto miope degli ambienti cattolici … febbrilmente impegnati a nascondere, proteggere, accogliere, stuzzicare l’istinto predatore di tutta la ‘ricchezza’ che approda sule coste italiche e penetra nelle nostre frontiere sfondate…”. C’è chi può dirlo. E chi non può.