Roma, 10 apr – Più che un saggio sembra quasi uno sfogo, un grido di allarme e uno slancio per uscire da una voragine di abbrutimento che trascina sempre più in basso. Contro la folla, il tempo degli uomini sovrani, in uscita oggi per i tipi di Passaggio al Bosco è il seguito ideale di Torniamo Uomini ma amplia il panorama di analisi dando una visione completa che comprende politica, metapolitica, cultura, uno sguardo che include l’uomo ma anche il mondo in cui si inserisce. Ed esce proprio in questi giorni di crisi, una crisi che non è solo economica ma soprattutto esistenziale e antropologica. Abbiamo incontrato l’autore, Emanuele Ricucci, per presentare ai nostri lettori i punti principali toccati dal saggio e i cardini su cui ruota il suo sovranismo integrale, un sovranismo che finalmente ricerca una “sfera superiore” rispetto al becero chiacchiericcio dell’attuale agone politico.
Il cardine del tuo saggio è la definizione di “uomo-folla”, la degenerazione ultima dell’uomo-massa. A cui bisogna rispondere tornando a essere Uomini, integrali e assoluti.
Esattamente. Va detto, anzitutto, che più che un saggio si tratta di una lunga riflessione da estendere, per me vitale. E, maggiormente, che si tratta di pagine realmente libere, dalla profondità dello stile, alle tesi che sostiene e alle riflessioni che propone. L’aspettativa mi ha tanto rotto i coglioni. Questo è ciò che realmente mi interessa, esattamente come nelle mie corde e volontà. Questo libro non vuole salvare la vita a nessuno e si profila come una prorompente cavalcata, una solenne rottura di coglioni per chi non ne saprà cogliere lo spirito e, ancor più precisamente, come un inno di battaglia necessario al momento che viviamo; pagine che cercano una traduzione. La traduzione di ciò che viviamo e di ciò che potremmo, e forse dovremmo, vivere. Nello specifico, di un uomo non nuovo, non restato tale, ma che torna ad esserlo, capace di ritrovare una propria integrità, una propria dignità della storia, che reagisca, che smetta di replicare, di abbassare lo sguardo, di accontentarsi, di sfiorare la vita fino al tramonto perché non lo tanga, sfiorando quasi la sensazione vissuta da Mario del Borghese piccolo, piccolo; che la smetta di essere schiavo delle emozioni, dell’empatia per giudicare il mondo e la vita, per votare, per vivere e pure per crepare. Quell’uomo integro l’ho definito, “uomo sovrano di sé stesso” (definizione che giunge alla secondo puntata dopo la prima volta che l’ho visto nel mio Torniamo Uomini, uscito nel 2017 con Il Giornale), perché questo è. Un uomo integrale, appunto, che recupera le proprie dimensioni, torna a leggere il reale e a condurre la sua vita da esse. Un uomo che si dedica la vita, parlando con Veneziani. Recupera, mantenendosi figlio del suo tempo, un rapporto con la cultura – si badi bene, non come dimostrazione di forza, accatastamento frigido di conoscenza, ma come coltivazione di sé stesso che traduce il tempo dello studio e dell’esperienza, il raccolto del pensiero critico e delle visioni, delle intuizioni, dei dubbi nati e colmati -, con Dio o l’Assoluto, con l’Arte e la Bellezza, col tempo e con la morte, con il coraggio e con la partecipazione, con molto altro, in una proiezione che poi si possa applicare nel reale ed esca dalla mera teoria. Questioni fondamentali per vivere non come un inservibile cornuto, che anni di capitalismo, neoliberismo, spinto agli eccessi, pratica folle del progresso virtualizzante, globalizzante, estraniante, migrante, precario e senza Madonna e senza confine hanno sterilizzato e reso roba vecchia come le bomboniere impolverate nella cristalliera della zia tirchia. L’uomo sovrano di sé stesso è l’uomo necessario al domani dopo il grande virus ed è il nemico naturale dell’uomo globalizzato, tipico della sinistra, e dell’uomo massa puro o replicante, esempio calzante dell’integralista Cinque Stelle, ma non solo.
Tornare ad essere Uomini, o semplicemente diventare finalmente Uomini, si contrappone però al concetto degenerante e quasi di regressione al gregge del “restiamo umani”.
Il restiamo umani? Ah sì, quello del mondo in cui siamo tutti fratelli ma speriamo che Boris Johnson stiri le cuoia dal suo letto di terapia intensiva. Quel restiamo umani lì? Quello dei fratelli migranti da sfruttare? Quello che pretende l’estinzione di ogni forma di civiltà che si ponga in alternativa ad esso? Quel restiamo umani che se vuoi manifestare in piazza liberamente le tue idee devi firmare il certificato antifascista altrimenti sei una primitiva testa di minchia? Benissimo. Avvilente moralità di servizio, forse un ricatto. Il restiamo umani è la forma globalizzante degli uomini; e possiamo dire anche, brutalizzante. È il teatro umano, l’aspettativa ideologica. Il torniamo uomini è il codice etico dell’intimità di ognuno. Un codice etico che, però, non presuppone alla rigidità. Non ci accieca di conservazione, non ci musealizza. Declinabile, ovviamente, nella collettività, data la sua elasticità, non la sua rigidezza. Riaffermare un rapporto corretto con la felicità, con lo spirito, con la preghiera, con l’arte, con la meditazione, con il tempo da farsi alleato e non più angoscioso nemico, non significa formare un tizio che va col fez a Predappio ogni 28 ottobre a gridare Faccetta nera, mettendo in ridicolo sé stesso, ma un uomo vero, vivo, consapevole, reattivo, lucido, che non sia solo carne. Intimità e collettività, quindi, ma una collettività non più vissuta con le logiche ingozzanti dell’uomo massa e della sua circostanza, la folla.
Si sente spesso l’espressione “parlare alla pancia più che alla ragione” ma quelli che lanciano questa accusa sono i primi a zittire la testa in nome della più bassa forma di empatia. Empatia che vedi come uno dei nostri principali nemici.
Dell’empatia ho apprezzato molto le tesi di Paul Bloom. Che bellezza la sua “difesa della razionalità”. Razionalità da intendersi come spazi di confinamento individuale, confini necessari per capire chi dove inizia chi, dove finisci chi. Confini da scavallare con la fermezza della ragione e con la bontà del cuore, certamente, ma necessari. Equilibrio, talvolta sobrietà, quel che manca alla sfacciataggine adolescenziale di questo tempo e dei suoi pupari. L’essere tutto il mondo, in ogni momento, pare diventato sempre più uno strumento di indirizzo politico delle folle arrapate, in piena bulimia di informazione, desiderose di attivarsi per non morire, anche a costo di non capire (l’esplosione delle fake news qualcosa vorrà pur significare. La certezza di vedersi contenuti in qualcosa per non perdersi nella confusione, anche a costo di vedersi contenuti nell’inesistente, come una cazzata cucita ad arte, ad esempio, dimostra). La coltura batterica perfetta per la globalità. Io predico – perché mi è rimasto di fare il predicatore pazzo, libero e inservibile – il contrario, ovvero un ritorno alla dimensione umana, un break necessario dalle logiche pazzesche del progresso e del mondo di oggi; un attimo di silenzio, un angulus oraziano, un recupero, il silenzio. Ecco perché ritengo il “sovranismo”, nel suo atto di recupero e tutela come significato di base, la dimensione giusta per farlo. L’uomo sovrano di sé stesso è certamente empatico, quel che serve per non farsi tremendamente inculare. Anzi, a maggior ragione, praticherà la pietà e il volontariato, e se credente, potrà attuare ancor meglio la propria funzione di servizio agli altri, ma avrà una forte coscienza, avrà recuperato una dimensione di indipendenza e di pensiero critico alla base delle sue scelte, non si farà manovrare. L’utopia serve a camminare, del resto. Non si sentirà come tutto il mondo, a comando. Sul libro, sicuramente, oltre queste brevi righe, si capisce meglio cosa intendo e perché ritengo l’utilizzo politico, sottoposto a una “speculazione ideologica” dell’empatia un mostro pericoloso. Come il Bau.
Sembra che tu senta che il sovranismo per ora sia solo una risposta pre-politica, istintiva e quasi di reazione difensiva a un mondo che va verso la disgregazione. E che lanci un allarme affinché questo contenitore per ora non definito si riempia finalmente per portare avanti una missione più alta, che si innalzi al di sopra del chiacchiericcio da twitter e dai selfie da facebook.
Sì, credo sia così, in gran parte, certamente non del tutto, ma in una percentuale ancora troppo bassa. Per quanti si impegnano a far maturare il “sovranismo”, sforzandosi di capire se è una casetta di cartone o un tempio sicuro, dall’altra vi sono gli adepti del leader, ciechi e sordi, incapaci di far evolvere la situazione, di lasciare tutto a un livello take away, di ingozzamento tematico, clitorideo, di mera stimolazione emozionale. Insomma, non si può parlare di identità solamente inveendo contro l’immigrazione. Sono proprio due delle tesi fondamentali che sostengo, e che si fondono in una, in Contro la folla: occorre pensare con urgenza a un uomo futuro capace di edificare una nuova integrità che sviluppi gli anticorpi al mondo che verrà dopo il virus e che sia alternativa all’uomo-folla – il perfetto conformista, capace di rappresentare al meglio la crisi di valori del nostro presente – quello che l’autore definisce “uomo sovrano di sé stesso”. Un individuo che torni a coltivare sé stesso, a dedicarsi la vita, avendo cura del proprio rapporto con la felicità e con la cultura, con l’arte e con la morte, con il tempo e con l’amore, col coraggio e con Dio, con l’Assoluto, con la Natura e con la Bellezza, essendo parte del proprio tempo. Un uomo alla riscoperta delle sue dimensioni che può trarre origine dal sovranismo – da intendersi ben oltre le passeggere vicende politiche e dei leader, estendendo il significato all’ “atto del recuperare controllo”, alla dimensione antropologica e culturale, e di cui l’autore mette in luce alcuni limiti strutturali, analizzando il caso italiano – nel quale si possa intravedere il modello umano di domani, dopo la crisi dell’uomo globale delle sinistre e dell’uomo massa in rivoluzione, caro al Movimento Cinque Stelle. Repetita iuvant. Un sovranismo che però, come parte finale della tesi fondante del libro, per fare questo e per salvarsi, dovrà codificarsi in un movimento culturale, compiendo lo sforzo di una di coltivazione collettiva e individuale, sottraendosi alla figura di mera e rabbiosa reazione politica. Di ciò che convenzionalmente chiamiamo sovranismo, mi interessa l’ispirazione.
Lanci anche un’accusa ai movimenti che generalmente vengono definiti “identitari” o “nazionali” che finora si sono sempre dimostrati incapaci di saper occupare gli spazi, di comprendere dove agire per poter incidere e di creare un’avanguardia che possa spezzare il monopolio pseudo culturale della sinistra.
O ci sei, o crepi. Oggi più di ieri, in cui un determinato mondo che fa del progresso la sua luce, non vuole “solo” vincere le elezioni e influenzare le politiche del Paese, ma lavora giorno e notte, e senza sconti, per estinguere ogni altra alternativa, a costo di abolire la libertà di parola, finanche di esistenza di determinati personaggi, idee o movimenti. Il territorio culturale è in mano alla sinistra. È evidente (nel libro vi sono ammissioni di questo anche da figure non propriamente “di destra”). Non vi sono solo spazi “mentali” da occupare con libri, tesi, convegni, incontri. Vi debbono essere volontà di tradurre. Tradurre delle visioni, delle letture, degli studi, un’intera coltivazione come territorio. Il più minuto, infrattato, piccolo e roccioso. La sinistra è la pusher della cultura di massa. Anche se cadavere politico, essa riuscirà a rigenerarsi nel suo granitico stargate, poiché capace di gestire la cultura di massa e di contaminare sempre il sentire comune. Di orientarlo. Per quanto il PD possa scendere nei sondaggi, vi sarà un Arci e un Anpi sempre pronte a rinsaldare determinate tesi, persino nella piazza più piccola e dimenticata dell’ultimo paesino umbro. Tesi che potremmo definire universali nel ragionar di sinistra, valori ancora tutto sommato esistenti. Non importa chi siano i leader del momento, come si chiamino i loro partiti. Una rete fittissima, calata sulla quotidianità, composta da dirigenti, insegnanti, docenti, bidelli, capi, capetti e caporali, cantautori, autori televisivi, giornalisti, direttori, scrittori, attori, scopatori di diciottenni alle mostre fotografiche a Trastevere, amministratori di condominio, associazioni culturali, garantisce la luce e la perfetta funzionalità di certi valori. Un certo mondo, che un tempo avremmo chiamato destra, deve tornare ad essere prossimità e non può più perdersi nell’imperfezione, negli umani vizi, negli incastellamenti, altrimenti rischia la condanna della storia per incapacità (i primi vent’anni di Berlusconismo, rara parentesi di centrodestra al governo, sembrano non aver lasciato nulla per la costruzione degli spazi, specie culturali, alternativi alla sinistra) o per percepita inferiorità (il placet dell’ “avversario” è onorevole fintanto che la forza incorrotta delle proprie idee, dei propri scritti, della propria coerenza, possiamo dire, è così densa da riuscire a strappare stima altrove rispetto alla tua posizione. Tutto il resto è perversione, mi pare. Invitandolo ai propri convegni, citandolo spesso, apprezzandolo di nascosto come un’adolescente bagnata che fissa il poster del suo divo segreto, cercare di far carriera con adorazioni improbabili, spinte a forza, rappresenta quell’atavica incapacità di un certo mondo culturale di non riuscire a sfondare rispetto agli “odiati cugini maggiori”). Poi vengono le giravolte, i cazzi e i controcazzi del balletto di rifinitura del Bol’šoj culturale.
Dici che si è passati dalla partecipazione a un “protagonismo mascherato da partecipazione”, in cui la necessità di sentirsi protagonisti nei social è forse l’aspetto più evidente. A questo contrapponi la rieducazione alla militanza.
L’atto della militanza oggi è mutato in una pulizia della coscienza, ad un’evacuazione di pensieri e ad uno scarico di rabbia che però, a differenza della pratica della militanza, non lascia nulla, se non l’illusione di aver “detto la propria”, di aver sommato una voce. Non v’è la necessità di una formazione, di un prima e di un dopo. Nella stessa giornata ho ricondiviso il post del leader, ho risposto al tweet del leader avversario, postandone lo screenshot sul mio profilo per mandare in berserk la mia tribù con la doccia di sangue, ho messo una decina di like e il gioco è fatto. Cosa ben diversa dalla frequentazione fisica della lettura, del dibattito in una sezione, del confronto, finanche delle sedie che volano tra pensieri contrapposti che poi convergono nella manifestazione di piazza. Manifestazione del proprio corpo, della visceralità con cui si vuole esistere, manifestazione di esistenza. Nel libro ritengo la militanza un “presidio culturale, individuale, semovente”, fondamentale; la militanza individuale che diventa IL luogo contrapposto ai nonluoghi del presente (per citarne uno, appunto, il social coi suoi segnaposto virtuali). La militanza è palestra di vita, al di là del sapore retrò o meno, delle varie sfaccettature in cui intenderla. È presenza contro l’assenza, è geometria contro la virtualità, è dinamismo contro la staticità, è assunzione di responsabilità in un mondo che vuole discolparsi da tutto, che ha reso oscena la sofferenza e la trasgressione, indicibile persino la morte. È comunità contro l’individualismo che sfocia nel mero egoismo, alla salvaguardia delle proprie necessità di sopravvivenza (poi si può tornare ad abbassare la testa). L’uomo sovrano di sé stesso è un militante perché viene e va verso una coltivazione di sé stesso e delle sue dimensioni, è vivo, reagente, partecipe, integro. L’illusione della partecipazione globale riguarda tutti. Si pensi ai militanti del Movimento Cinque Stelle chiamati ogni volta a raccolta a votare su una piattaforma con le dita unte di patatine, i quali spesso vedono disattese le proprie speranze nelle innumerevoli giravolte del Movimento. Ma non è solo questo, e non solo il web. È un’attitudine riscontrabile. Il segnaposto virtuale che oggi popola il web è cosa ben diversa dal marcatore fisico del territorio. Carne e ossa che si frappongono, strillano, sventolato una bandiera, manifestano rabbia e proposte.
Un passo importante nel tuo saggio parla di “cultura della debolezza”. Sembra che siamo in quella fase terminale del pensiero debole in cui esso cerca di difendersi accusando tutto ciò che è “forte” o anche semplicemente non debole di essere violento e quindi pericoloso.
Spalle al muro di un certo modo di intendere il mondo. Nel libro chiamo ad esempio anche la cosiddetta generazione fiocco di neve, tipica della vita anglosassone, quella porzione di giovanotti morti ancor prima di nascere, terrorizzati dall’idea che possa esservi una visione del mondo diversa dalla loro, che possa confutare la loro, e per questo ermeticamente chiusi al confronto. Nell’assenza di curiosità vi è rifiuto; nel rifiuto non esiste crescita, senza crescita non v’è maturità. Il Rinascimento non sarebbe mai esistito senza la curiosità degli uomini. Il cuore non duole se l’occhio non vede, a costo di crepare. Finite le frasi fatte, l’uomo sovrano di sé stesso coltiva sé stesso nell’opposta direzione: quella dell’assunzione di responsabilità come forma di integrità. Responsabilità verso di sé e verso ciò che ritiene vita, ciò che per cui si è dedicato la vita. Certa forza in realtà è bruciante debolezza. Come quando si buttano le mani avanti per non cadere indietro. È possibile, forse, trovare un dialogo con un certo mondo oltranzista come quello dei centri sociali, di determinati ambienti estremisti o femministi? È letteralmente impossibile. Tu parli, loro si tappano le orecchie e strillano più forte canzoncine rassicuranti, come un gatto che fa le fusa poco prima di morire per rassicurare sé stesso nell’atto più brutto: quello dell’estinzione.
Hai ripreso quello che Adriano Scianca in Contro l’eroticamente corretto afferma sul senso di “cura”. Ovvero non lo stereotipo empatico di tenerezza ma il farsi carico dell’altro. Proprio come fa un pater familias, archetipizzato da Enea che porta sulle spalle il padre e porta con sé il figlio, portando anche il Fuoco e gli Antenati.
Si sente il soffocamento. Non c’è la mano tesa all’altro, c’è la volontà di assorbire l’altro. Di Scianca ho ripreso ciò che lui ha ripreso e ragionato nel suo ottimo lavoro citato a partire da Jean-Yves Le Gallou, parlando della triade del nichilismo perfetto: Big Brother, Big Other e Big Mother. Big Other. Un’adorazione senza limiti per l’altro, amplificata dall’odio di sé, della propria cultura, della propria civiltà. Un’ideologia unica che ci assoggetta grazie ai metodi del Big Brother: la società di sorveglianza che conosciamo, in cui la polizia del pensiero è onnipresente. Un’ideologia unica che s’impone tanto più facilmente a individui che sono indeboliti dalla tutela di Big Mother: il principio di precauzione applicato dalla culla alla tomba, quella che Scianca ben definisce “l’anestesia globale che annichilisce la virilità spirituale”. Ma al di là dei pipponi, è tutto evidentemente riscontrabile, ad esempio, nell’impossibilità del maschio bianco occidentale di poter persino provare un sentimento; ad egli viene imputato ogni colpa, ogni responsabilità e ogni male, specie verso il mondo femminile. Lo si stressa, si cerca una devirilizzazione (anche come figura paterna, nella distruzione del capostipite su cui gira una famiglia, ad esempio, il pater familias), ansia, ansia, ansia, sudore, sudore e disperazione: bisogna distruggere il maschio attraverso l’atto più naturale per il suo annichilimento: renderlo impotente. Non può desiderare, non si può più eccitare, immaginare, proferire verbo che non sia politcally correct, deve rinunciare alla propria mascolinità come atto di sottomissione a un matriarcato di vetro fragile, elevazione di un capriccio, parlando del caso estremo, ovviamente, e non di legittime e sacrosante pari opportunità. Così come è riscontrabile nell’adorazione dell’altro, del migrante, ad esempio, come “narrazione dominante” di questa contingenza.
Nel saggio affermi che va “coltivato” un Uomo nuovo, sovrano di sé stesso, che superi il populismo attraverso una centralità identitaria e culturale. Sembra quasi di sentire gli echi di Svart Jugend quando parla della differenza tra chi deve avere un’opinione su tutto e chi invece ha una visione del mondo…
Il populismo è la sostanza con cui stanno drogando una generazione che si vuol credere nuovamente redenta e partecipante. Ascoltare il parere di qualcuno è solo il primissimo step nella costruzione di un rapporto sincero e concreto. Questo libro nasce, in primis, come reazione agli strilli di tutti, nell’utopia di tornare a lasciare qualcosa in eredità che non sia stata una jpeg stoccata in qualche hard disk che, prima o poi, è solo questione di tempo, verrà formattato. Lasciare qualcosa. Pertanto credo che il Sovranismo – ad esempio, tra le molte cose che è e che non è, e su cui nel libro provo a riflettere – che non è affermazione di una Nazione sull’altra, ma tutela della propria dall’ipertrofia continua del mondo, è patto di esistenza e autodeterminazione nella globalità, garanzia di rispetto, proprio ciò gli uomini ancora svegli pretendono dai caotici bassifondi del presente, sia la versione matura del populismo. L’uomo sovrano di sé stesso, integro, consapevole, reattivo, coltivato ed incarnante di altre e tante belle cose, sia la versione matura del populista tastierato, ipermodernizzato, non coltivato se non sulla percezione del reale, di ciò che riesce a cogliere e a impastare come conoscenza statica, tra le parole del suo leader, un po’ di web, qualche talk show, molti post e troppo sentito dire. Fattori che si distinguono dalla liquidità delle visioni del populismo, che appare come un momentaneo stato febbricitante, come transizione delle masse furenti o placide, ma comunque non più poste in condizione di priorità, che non impone un determinato obiettivo visionario, né uno specifico modello “ideale”. Penso al sovranismo come un “riacquisire”, un “riprendere”, un “proseguire”; il populismo, invece, come un “accontentare” o comunque un “gestire”. Gestire implica un’intercambiabilità degli orizzonti, declinabili, anche nei temi, al momento, al grado di priorità secondo le necessità di sopravvivenza sociali; riacquisire, pare presupporre un qualcosa di preesistente e fondamentale.
Carlomanno Adinolfi
3 comments
👍👏Molto interessante! Se non sbaglio, c’è un po’di Nietzsche e di Julius Evola.. 😉
Se questo è il modo di articolare il “sovrano”, i “sovrani” resteranno piuttosto soli… L’ uomo-folla, l’ uomo-massa non esistono…, salvo per chi li gestisce così! Quest’ ultimi vanno affrontati, combattuti e vinti! Rileggetevi bene la Psicologia delle folle di Le Bon per comprendere che il singolo non è l’ uomo folla.
Piuttosto, si impari a collocare ogni persona al posto giusto in via di valorizzazione ulteriore…
[…] forma letteraria di distopia; Emanuele Ricucci, giornalista e saggista da poco uscito con il suo “Contro la Folla: il tempo degli uomini sovrani” in cui pone l’accento sulla degenerazione delle masse in folle, sulla perdita di qualità […]