Valendosi dell’ordine del giorno (il cosiddetto ordine Grandi) votato dal Gran consiglio del fascismo nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, che invitava la Corona a riassumere la guida del Paese, il re d’Italia Vittorio Emanuele III destituì il capo del governo, sebbene la revoca sia stata mascherata sotto forma di accettazione delle dimissioni di Mussolini. Autorevole dottrina aveva messo in evidenza come la «caduta del regime fascista, avvenuta il 25 luglio 1943, si verificò nella forma extra-costituzionale del colpo di Stato, perché alla formazione, per opera del Re, del nuovo Governo, si era provveduto senza la consultazione del Gran Consiglio richiesta dalle leggi allora vigenti».
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2023
All’obiezione di una certa storiografia secondo la quale, in virtù della costituzionalizzazione del Gran consiglio ad opera della legge 17 maggio 1928 e della legge 9 dicembre 1928, n. 2693 (parzialmente modificata con la legge 14 dicembre 1929, n. 2099), il voto della drammatica seduta del 25 luglio 1943 era da considerarsi pienamente legittimo, poiché le leggi prima citate avevano attribuito a esso una responsabilità autonoma e un potere di espressione di una volontà collegiale anche difforme da quella del capo del governo, si può replicare sostenendo che il problema è mal posto. Non si tratta di stabilire se il Gran consiglio riflettesse o meno una propria volontà o quella del capo del governo, ma (a) se l’ordine del giorno Grandi rientrasse o meno tra le sue attribuzioni e (b) se la Corona potesse procedere alla nomina del nuovo capo del governo senza la consultazione previa della lista da parte del Gran consiglio del fascismo.
Diritto calpestato
In merito al primo punto, la legge del 9 dicembre 1928, n. 2963, al di fuori del caso di proposta del titolare dell’organo supremo di governo solo quando una vacanza si fosse verificata (art. 13), non consentiva alcun rapporto diretto del Gran consiglio con la Corona. Il sistema governativo era incentrato sulla figura del capo del governo quale «centro di tutto il diritto costituzionale senza il quale il sistema non si regge e non s’intende». Infatti, fin dalla legge n. 2264 del 24 dicembre 1925 sulle attribuzioni e prerogative del primo ministro, si venne a costruire gradualmente una nuova organizzazione del potere di governo che aveva introdotto una sorta, per dirla con Mortati, di «regime del Capo del Governo» o di una «monarchia a Premier» in analogia con l’ordinamento inglese, ove al principio gerarchico, autoritario volto a imprimere la direzione dello Stato, si affiancava la figura del capo del governo quale centro dei rapporti tra società e Stato. La svolta corporativa, poi, rafforzò questa posizione, incentrandosi sulla sua libera azione e sulla sua esclusiva responsabilità di fronte alla Corona.
Quanto, invece, al punto (b), è opportuno partire dalla formulazione della disposizione normativa di cui all’art. 13 della legge n. 2963/1928: «Il Gran Consiglio, su proposta del Capo del Governo, forma e tiene aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona, in caso di vacanza, per la nomina del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato». Ora, Vittorio Emanuele III, nel pomeriggio del 25 luglio 1943, non si rivolse al Gran consiglio chiedendo di consultare la suddetta lista. Egli non era obbligato ad attenersi, all’atto di nomina del capo del governo, ai nomi in essa compresi, doveva però rivolgersi a quell’organo costituzionale e richiederne la lista.
Il ruolo di Vittorio Emanuele III
Anche qualora la lista non fosse stata compilata, la presidenza del Gran consiglio, in ipotesi di vacanza, avrebbe dovuto essere assunta da altra persona appositamente qualificata per la sua compilazione. Questa persona, in linea con l’art. 3 della legge n. 2963/1928, non poteva che essere il segretario del Partito nazionale fascista. Non erano mancate, in merito, obiezioni da parte di chi riteneva non sussistere da parte del segretario del Pnf il potere di convocazione e presidenza del Gran consiglio in mancanza della delega, proprio come nel caso di vacanza, che era richiesta apertis verbis dalla norma di cui sopra.
In realtà la lettera dell’art. 3 della legge n. 2963/1928 appariva poco felice. È abbastanza evidente che il requisito della necessarietà della delega non potesse sussistere nell’evenienza in cui mancasse la possibilità di un delegante, e questo non solo nell’ipotesi di cui in trattazione, ma anche in quella di improvvisa morte del capo del governo appena nominato, che non aveva avuto il tempo materiale di prestabilire la delega.
Lo Statuto non c’entra
Si potrebbe, tuttavia, sostenere che, in ragione del potere di intervento diretto ed effettivo da parte della Corona nella direzione del governo proprio all’atto di scelta del capo del governo, la stessa Corona avrebbe potuto convocare il Gran consiglio per ricevere la lista. Il dato certo risiede comunque nella obbligatorietà e necessità della presentazione della lista, sebbene non vincolante, che il sovrano aveva l’obbligo di richiedere. Si tratta di un aspetto mai disconosciuto anche da parte di quella dottrina che ha sostenuto la costituzionalità degli avvenimenti del luglio 1943.
Affermare, viceversa, che la scelta del re di non ricorre alla lista sia stata il frutto di un ritorno allo Statuto, secondo la nota espressione del Sonnino, è una tesi di difficile accoglimento. Raffigurare il rapporto di scelta da parte del sovrano come intercorrente tra due termini di cui l’uno, il re, e l’altro, il popolo, nella sua indistinta totalità non pareva rispondente alla realtà e all’ordinamento costituzionale allora vigente. Il primo ministro, infatti, era il…