Cartastràccia, il libraio di Altaforte racconta Ciccio Franco
Milano, 9 mar – “Ho posto la mia causa su nulla”. Nelle parole di J.W. Goethe troviamo il nesso ultimo della politica post ’68. Il verso iniziale della poesia Vanitas! Vanitatum Vanitas sembra essere la fonte cui la democrazia ha deciso di abbeverarsi. Eppure c’è chi dice no. Chi ha gridato, in faccia al mondo ostile, “Boia chi molla!”. Francesco Franco, detto “Ciccio”, è stato il capopopolo della Reggio Calabria che nel 1970 è insorta contro le logiche del potere partitico. Remo Lugli, giornalista della Stampa, nel settembre di quell’anno disegnò sulle colonne del giornale torinese un ritratto del sindacalista Cisnal: “Ha sempre la barba di tre giorni (…) che gli consente di dare alla sua faccia un aspetto rude e volitivo, da capo insonne”. Tutto per la gente reggina, tutto per la causa.
“Il popolo è con noi perché noi vogliamo che Reggio sia Capoluogo”. Il mito della lotta non ha mai smesso di scorrere. Come ricorda Ernst Jünger nel suo Trattato del ribelle non dobbiamo voltarci verso il mito in una sorta di torcicollo perenne capace solo di renderci miopi davanti all’avvenire, ma quando il tempo inizia a vacillare la saga aggiorna la sua mitologia.
Il boia chi molla di Ciccio Franco
“Boia chi molla è il grido di battaglia!”. Risuonava in tutta Reggio Calabria il motto che ha scandito quegli otto mesi, dal luglio 1970 al febbraio 1971, che profumavano di rivoluzione. Un grido lontano, come ricorda Giorgio Ballario nel suo Fuori dal coro, che aveva già accompagnato l’insurrezione della Repubblica Partenopea nel 1799. Che aveva ispirato i moti risorgimentali delle Cinque Giornate di Milano nel 1848 e che aveva guidato l’ultima guerra d’indipendenza italiana: la Prima Guerra Mondiale. Ma il coro non si è strozzato nella gola dei patrioti, risuonando ancora tra i militi della Repubblica sociale italiana fino ad accompagnare, nella prigionia, gli irriducibili di Mussolini nel Fascist Criminal Camp di Hereford, in Texas.
Giampaolo Pansa scrisse che il Pci fu responsabile “di aver regalato al Msi la rivolta di Reggio”. Lo fece perché non accettò “sin dall’inizio il connotato fondamentale della violenza”. Causa e conseguenze nelle parole e nei gesti di Ciccio Franco, non un barricadero alla ricerca di gloria personale, ma un uomo che diventa vettore della rivolta che sogna la rivoluzione. Alla guida di quella parte politica che non inaugurò le danze ma che seppe alimentare il fuoco della speranza quando Pci, Dc, Psi e affini sbiancarono innanzi agli echi della persecuzione giudiziaria. Per quegli otto mesi subì la carcerazione, con anche l’accusa di complicità in alcuni attentati ferroviari, ma fu assolto venendo, in una sorta di plebiscito popolare, eletto al Senato.
Il coraggio contro la paura
Giuseppe Scopelliti durante il suo mandato da primo cittadino di Reggio Calabria, intitolando a Franco l’Arena dello Stretto, definì l’anima dei moti “un modello per la destra di oggi”. L’esempio è intorno a noi, dentro di noi e sopra di noi. “Una Rivolta interclassista, delle ‘mani pulite’, di una città che si sentì tradita e abbandonata, ma con un grande senso di appartenenza, simbolo di un Meridione umiliato. Solo i carri armati la fermarono”. Le parole finali del volume Rivolte, scritto da Alessandro Amorese, fotografano quegli animi. Perché Ciccio Franco sarà nostro padre, nostro fratello, tu che leggi, io che scrivo, ogni uomo e donna che crede nel coraggio contro la paura.
Lorenzo Cafarchio
2 comments
“Roma, Reggio, Milano sarà peggio!”. Purtroppo così è stato. Forse che i ns. immigrati al nord hanno tradito, per soldi, potere e altri illusioni varie?! Brutto destino quello degli emigranti… Boia a chi molla, comunque e sempre.
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