Roma, 1 lug – E’ ormai passato più di un mese dall’omicidio di George Floyd, ed il mondo intero è stato come investito da un’ondata di conformismo antirazzista incontrastabile. A capi di stato, partiti e personaggi politici, celebrità di sorta e movimenti di piazza, oggi si sono infine aggiunte immancabili, le multinazionali. Un paio di giorni fa la Mercedes ha deciso di annunciare un cambio di livrea, dal classico argentato al più moderno “total black” contro il razzismo. La casa costruttrice tedesca è nuova a questo genere di iniziative, avendo sempre privilegiato la linea tradizionale rispetto alla moda. Chi non è affatto nuovo a questo mondo è il suo frontman e pilota campione del mondo: Lewis Hamilton, lo sportivo inglese è da sempre infatti paladino dei diritti civili dei neri.
Facendo una valutazione del fenomeno, ci accorgiamo di quanto tutta questa deriva sia molto più che spicciolo buonismo; l’antirazzismo è diventato ormai un vero e proprio brand che nessuna multinazionale può permettersi di non mettere in catalogo. Mercedes è solo l’ultima arrivata in questa distopica classifica dell’arrivismo sensibilizzatorio. L’Oréal pochi giorni fa ha messo mano alla propria campagna di comunicazione bandendo parole come “bianco” e “sbiancante”, Calvin Klein ha scelto per la sua nuova linea il modello afro americano e attivista transgender Jari Jones, non esattamente un peso piuma.
Nike e Adidas fanno pace in nome dell’antirazzismo
Non vengono meno poi in questa scaletta altri storici marchi che qualche settimana fa aderiscono al famoso “Blackout Tuesday”, Nike e Adidas, storici competitor nel mondo dell’abbigliamento sportivo hanno riunito le proprie forze imponendo ai propri atleti le linee guida su come festeggiare i propri successi in nome del Blm, facendo dell’esempio di Colin Kaepernick in quota Nike (quarterback e attivista celebre per aver inventato la famosa esultanza in ginocchio in segno di protesta durante l’inno nazionale americano) una specie d’icona pop antirazzista che oggi vediamo quotidianamente emulata.
Persino Mark Zuckerberg non è stato risparmiato, le marche di abbigliamento Patagonia, North Face, Vans e Timberland hanno minacciato il fondatore di Facebook di ritirare sponsorizzazioni e venire meno ad accordi pubblicitari nel caso in cui i suoi canali social non prendano pubblicamente le distanze da e non boicottino la campagna elettorale di Donald Trump; Coca Cola è andata poi un passo oltre, ritirando da subito i fondi investiti nelle sue società. Seguono poi le case produttrici Netflix e HBO, quotidianamente adoperati nella censura di film vecchi e nuovi che non abbiano almeno un tot di quote “black” nelle proprie pellicole. In ultimo i messaggi sensibilizzatori dei marchi di alta moda: Gucci, Vuitton, Benetton, Valentino, Dolce&Gabbana, Pull And Bear, Mango, Jordan etc. Sembrano passati cent’anni da quella famosa frase di Michael Jordan “Republicans buy sneakers too”, anche i repubblicani comprano sneakers, in merito alle elezioni a governatore del North Carolina tra il democratico Harvey Grantt (che MJ si rifiutò di appoggiare pubblicamente) ed il repubblicano Jesse Helms, poi vincitore della contesa nel 1990.
La “redenzione” di Michael Jordan
Oggi, trent’anni dopo, un “redento” Jordan propone invece l’antirazzismo come materia scolastica e dona alla causa 100 milioni di dollari con il suo Jordan brand, a riprova di come, ormai, quest’ultimo sia ormai una vera e propria autocertificazione, senza la quale, proporsi in ogni ambito è ormai impossibile. Ci verrebbe quindi da dire Blacks buy sneackers too, se poi nel concreto non vedessimo le immagini degli assalti ai negozi di queste stesse multinazionali durante le proteste dei Black Lives Matter, perché a volte si sa, il karma non è obbligato ad inginocchiarsi a nessuno. Più di una volta, proprio questi colossi di mercato ci hanno insegnato che razzismo e schiavismo sono, al contrario, le chiavi principali del cinico successo che li ha visti salire ai vertici del potere economico.
E’ evidente come questo mettere le mani avanti, oltre che una specie di gara di saldi destinata alla nuova fetta di acquirenti petalosi, Lgbt e anarchici di un mondo ormai trasformato in una specie di “CHAZ” senza confini, sia anche una sorta di assicurazione sugli infortuni che subirebbero le loro proprietà se il Vaso di Pandora venisse aperto. Se, dopotutto, statue e simboli di quell’Occidente che fu, che oggi vorrebbero come causa di ogni male, non possono difendersi e vengono spesso abbattuti e sfregiati, allo stesso tempo trovano ancora qualche erede spirituale disposto a rispondere “sed ferro” al “Vae Victis” del Brenno di turno. Al contrario di queste grandi multinazionali, che non avranno mai alcun dipendente disposto a sacrificare la propria testa per difendere un paio di scarpe,
Lorenzo Marchei
2 comments
LA MODELLA Jari Jones.
Io non ci credo che avete davvero scritto il modello.
Jari Jones, è una DONNA transgender.
[…] le grandi multinazionali, ormai vere e proprie avanguardie politiche e culturali, come testimoniato dall’attivismo dei grandi marchi durante le proteste di Black lives matter. L’emergenza sanitaria non fa eccezione, e così ecco che la Coca-Cola un mesetto dopo la […]