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American Primeval, un viaggio all’inferno

by La Redazione
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Roma, 25 gen – “L’America è nata nelle strade”, recitava lo slogan promozionale del celeberrimo Gangs of New York di Martin Scorsese. “L’America è nata all’Inferno”, suggerirei io per promuovere la nuova miniserie targata Netflix, rispondente al nome di American Primeval.

Il ritorno del western

Sarà che sono tempi veramente duri. Probabilmente non è un caso che questo clima da simil guerra mondiale abbia riportato in auge da qualche tempo il genere western, spogliato peraltro di tutto il romanticismo, se pur violento, che ne aveva caratterizzato il filone agli albori. Con American Primeval siamo di fronte ad un universo che fa sembrare quello popolato da zombie di The Walking Dead quasi un posto simpatico ed ameno! Nella serie creata da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg, siamo infatti nel 1857 durante la Guerra dello Utah, all’epoca territorio ancora non civilizzato, che visse il violento confronto tra l’esercito regolare statunitense e le milizie dei mormoni, allo scopo di farne il proprio dominio.

Dimenticate però pellicole come La carovana dei mormoni di John Ford, che dipingevano questo gruppo religioso come pacifico e dedito alla preghiera, qui abbiamo a che fare con la figura a capo della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Vale a dire Brigham Young, che guidò il suo popolo nello Utah, dove si nominò governatore. Poligamo, si disse che arrivò ad avere 55 mogli e una sessantina di figli, non disdegnava affatto l’uso della violenza e dell’intimidazione. Qualità indispensabili per poter gestire un vasto territorio nel quale, oltre alle ingerenze del governo statunitense, doveva avere a che fare anche con i nativi e tutta una serie di avventurieri in cerca di fortuna.

American Primeval, il massacro di Mountain Meadows

La serie prende lo spunto dal fatto storico del Massacro di Mountain Meadows, nel quale almeno 120 persone furono trucidate dalle milizie irregolari dei mormoni. La loro colpa? Far parte di una carovana che ambiva a cercare casa nelle stesse località nelle quali Brigham Young stava estendendo il suo dominio. Nella storia narrata appaiono poi altre due figure storiche: il fido braccio destro di Young, William Hickman (spietato esecutore delle volontà del leader), e Jim Bridger, un famoso trapper che gestisce un forte in quelle sperdute zone. Intorno si muove il motore dell’azione, Sara Holloway, una donna in compagnia del figlio e braccata da spietati cacciatori di taglie, che si lega all’esploratore Isaac Reed, un bianco cresciuto dagli indiani Shoshone e che vive isolato sulle montagne.

Una serie non adatta ai deboli di stomaco

Le sei puntate scorrono che è una meraviglia (anche se è opportuno avvisare che non sono esattamente adatte ai deboli di stomaco), in un crescendo di atrocità commesse da tutti i soggetti in gioco. Atrocità che però ci vengono spesso descritte in maniera assai neutra. Del resto stiamo parlando di un mondo nel quale la legge era ancora un concetto molto astratto e lontano, per cui la sopravvivenza non si poteva certo legare alla moralità.

Ecco perché, a differenza di tante serie Netflix moraleggianti, questa funziona benissimo. Non pretende di dare giudizi di merito utilizzando il sentire contemporaneo. Una delle scene dell’episodio conclusivo ci mostra magistralmente come doveva essere l’approccio alla vita di quei luoghi: il forte venduto da Bridger ai mormoni dato alle fiamme da questi ultimi per liberarsene, mentre gli ultimi abitanti se ne vanno ubriachi tra le rovine del bar che sta bruciando, cantando a squarciagola The Wild Rover. Immagini potenti che restano impresse e che ci aiutano, più di tanti documentari, a capire anche l’America (e non solo lei…) di oggi.

Roberto Johnny Bresso

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